Centro Studi Ermetici Alchemici

ALCHIMIA ED ARTI MARZIALI

Premesso che le arti marziali occidentali spesso hanno a che fare con forme alchemiche, anche l’arte marziale orientale come il Wing Chun Kung Fu si basa sui precetti del Qigong, il quale ha come fine il raggiungimento dell’elisir di lunga vita e quindi può ascriversi a pratica alchemica.
La tentazione di mettere a confronto due tipi di alchimia (quella occidentale e quella orientale) è tanto suggestiva quanto complessa e richiederebbe ben più spazio di un articolo, per cui il titolo e l’oggetto di questo scritto riguarderà l’alchimia occidentale (in particolare quella facente riferimento alla tradizione ermetica) e l’arte marziale sopra citata, di cui ho una decennale esperienza. L’intento, dunque, è quello di esporre una riflessione pratico-esperienziale anziché quello di una trattazione saggistica, nonostante alcuni riferimenti alle varie teorie alchemiche siano d’obbligo.
Mentre nell’alchimia occidentale gli elementi sono quattro (terra, acqua, aria, fuoco), nell’alchimia cinese gli elementi sono cinque (terra, acqua, fuoco, legno e metallo), ma nonostante tale diversità il fine ultimo di entrambe è lo stato di quintessenza raggiunto mediante la trasmutazione continua degli elementi. La caratteristica comune, invece, è la polarità inversa di fuoco (positivo o Yang) e acqua (negativo o Yin): in entrambi i sistemi questi due elementi rappresentano gli opposti assoluti o estremi.
Il Wing Chun è una disciplina cinese sorta all’incirca a metà del XVII sec. (d.C.). Di essa, tralasciando le varie storie e leggende, possiamo dire che sia una forma marziale di Kung Fu abbastanza recente e stilizzata, quindi particolarmente adatta alla difesa personale, grazie alla sua relativa semplicità. Il programma di studi prevede sei forme, di cui tre a mani nude, una al manichino di legno, una al palo e una ai doppi coltelli. Come per la stragrande maggioranza delle arti marziali, il Wing Chun è un continuo addestramento di corpo e mente, che favorisce la concentrazione, l’uso intelligente della forza (massimo risultato col minimo sforzo), la stabilità e l’equilibrio. Oltre alle forme (sequenza preordinata di movimenti eseguita individualmente), l’allenamento prevede due tipi di pratica: lat sao e chi sao, ovvero lo studio del combattimento a distanza e a contatto, assieme ai propri compagni di Kung Fu. Lo studio a contatto stimola particolarmente le capacità percettive che fuse assieme a quelle di coordinazione visiva-motoria (tipiche dello studio a distanza), dà una formazione pressoché completa per il combattimento reale. Le forme, invece, sviluppano il senso dell’equilibrio, la coordinazione dei movimenti di base, il movimento del proprio corpo nello spazio, rimanendo bilanciati. Queste capacità marziali si conquistano con costanza, disciplina e continuo sforzo, a volte a scapito della propria salute qualora la pratica non sia corretta. Per questo motivo, sapientemente, i cinesi abbinano la pratica marziale a quella del Qigong, riguardante prevalentemente il mantenimento della propria salute; anzi, a dire il vero, le due cose sono strettamente correlate, in maniera tale che la corretta pratica marziale debba seguire i precetti del Qigong e quindi della medicina cinese. Il termine vuol dire tecnica del respiro o tecnica dello spirito, indicando l'arte di far circolare l'aria nel modo più adatto per raggiungere e mantenere il benessere psicofisico.
L’alchimia occidentale ermetica, come quella orientale, ha ovviamente a che fare anche con il respiro, sulla cui importanza non mi soffermo più di tanto perché a questo riguardo sono stati versati fiumi d’inchiostro; ma non solo: esercizi di meditazione, esercizi sull’alimentazione, sui vari tipi di percezione (visiva, sonora, olfattiva, tattile, gustativa, ecc.) sono tutti elementi vitali o atti a sviluppare la nostra vitalità più piena. Questo, in estrema sintesi, il campo d’azione dell’alchimia, ma verrebbe da chiedersi: a che pro? Personalmente penso che, al di là del fatto che esista o non qualcosa oltre la morte (cosa che al momento non ci è dato sapere), il senso di tutto ciò sia vivere il presente al meglio delle proprie potenzialità. L’operare, dunque, una sorta di controllo di tutte le nostre funzionalità (in particolare: la respirazione, l’alimentazione e il movimento ben coordinato), ci fa prendere coscienza in maniera sempre più evidente di cosa c’è ora, in questo preciso momento, che non va, che bisogna collaudare per farlo funzionare meglio. In una sola frase: cambiare per vivere meglio!
A questo punto verrebbe da chiedersi: ma quali benefici l’alchimia può apportare ad una disciplina marziale? E viceversa: la pratica di una disciplina marziale quali benefici può dare all’alchimia?
L’alchimia ermetica occidentale si serve di una simbologia legata ai numeri per definire vari modelli che descrivono il processo di lavorazione e trasformazione evolutiva del composto psicofisico dell’uomo. L’uno rappresenta l’Assoluto, la Causa Prima, lo stato a cui tendere (absolutus, ovvero sciolto da qualsiasi attaccamento o coinvolgimento terreno) e si riflette in una serie di emanazioni metafisiche (12 segni zodiacali e 7 pianeti), che a loro volta si riflettono in una manifestazione fisica caratterizzata al suo interno da quattro elementi diversi (Terra, Acqua, Aria, Fuoco). Un altro modello del processo di trasmutazione (che può essere indirizzata al potenziamento, all’espansione del campo energetico e informativo dell’uomo) si associa a tre principi fondamentali per l’esistenza: lo Zolfo (perfetto, incorruttibile) ovvero lo spirito eterno; il Mercurio (mutevole, imperfetto, corruttibile, infinito) ovvero l’anima mundi; il Sale (instabile e finito) ovvero il mondo fisico. Per analogia potremmo riportare tale modello all’uomo (Spirito, Anima e Corpo) e assimilare questi tre principi ai tre Dan Tian, ovvero i luoghi nel corpo dove il Chi (in Pinyin qi, 气 ) viene conservato, accumulato e dal quale poi si irradia nei diversi meridiani del corpo. Questi punti, orientativamente, si trovano in corrispondenza della testa (Shang), del cuore (Zhong) e del bacino o vita (Xia): non a caso il Dan Tian che risiede sulla sommità del corpo è detto anche Shen, ovvero Spirito (sede dell’energia spirituale). Per rispondere, dunque, al primo interrogativo possiamo dire che per un occidentale seguire una pratica alchemica può essere d’aiuto a comprendere meglio la disciplina marziale orientale da un punto di vista prettamente spirituale, fornendo un quadro complessivo entro il quale collocare meglio il senso di ciò che si esegue e, non da ultimo, un trait d’union tra due culture. Questo di conseguenza porta anche una migliore focalizzazione della mente e dello spirito ogni qualvolta ci si trovi a dover superare i limiti del proprio corpo (o meglio, le trasformazioni del proprio corpo durante gli anni di pratica marziale – si legga: continua trasmutazione degli elementi).
Quali siano, invece, i benefici della pratica marziale per l’alchimia dovrebbero essere già abbastanza chiari dalla seppur breve descrizione svolta poco sopra. Riassumendo possiamo dire che tutta l’attività di sviluppo della coordinazione motoria e della percezione spazio-temporale dà all’alchimia un ottimo supporto per l’elaborazione approfondita del composto (della pietra grezza, del piombo). Inoltre, l’arte marziale favorisce la riconduzione di quest’ultimo (del composto così lavorato, del fuoco) alla terra, operazione che chiude e ricomincia il ciclo continuo di trasmutazione degli elementi. Elementi visibili di quest’ultima operazione sono una maggior tempra di mente e spirito, in comunione col corpo (unione degli opposti).
“Dopo cinquecento anni di studi e ragionamenti deduttivi [sul buddismo indiano], i monaci cinesi avevano stabilito un metodo per raggiungere l’illuminazione che era diverso da quello dei sacerdoti indiani. I monaci pensavano che il traguardo del Buddismo potesse essere conseguito semplicemente attraverso la coltivazione dello spirito. Tuttavia, secondo i documenti disponibili, questa eccessiva enfasi sulla coltivazione spirituale li portò a trascurare i loro corpi fisici. Essi consideravano il corpo fisico come un mezzo da utilizzare in modo temporaneo per raggiungere l’illuminazione, e arrivavano perfino a deriderlo bollandolo come una sacca di pelle puzzolente (Chou Pi Nang). Era loro convinzione che fosse lo spirito a raggiungere l’illuminazione, pertanto perché avrebbero dovuto sprecare del tempo ad addestrare il loro corpo fisico? Di conseguenza vi fu un’enfatizzazione della meditazione, accompagnata da una totale mancanza d’interesse verso gli esercizi fisici. Tutto ciò portò a un indebolimento delle condizioni fisiche dei monaci, alcuni dei quali cominciarono ad ammalarsi. Questo problema era reso ancor più grave da una dieta poco nutriente e aproteica. Tale atteggiamento rimase immutato fino all’arrivo di Da Mo in Cina. … Da Mo, il cui cognome era Sardili ed era anche conosciuto con il nome di Bodhidarma, era un principe di una piccola tribù dell’India del Sud. Faceva parte della scuola buddista Mahayana, e da molti era considerato un bodhisattva, ossia un essere illuminato che aveva rinunciato al nirvana per salvare gli altri esseri umani. Da alcuni brani dei documenti storici, si pensa che Da Mo sia nato verso il 483 d.C. A quel tempo i cinesi consideravano l’India come un vero e proprio centro spirituale, in quanto era la culla del Buddismo. Molti imperatori cinesi inviavano i sacerdoti in India per studiare la dottrina e riportare in patria le scritture buddiste, oppure invitavano i sacerdoti indiani a predicare la dottrina sul territorio cinese. Si pensa che Da Mo sia stato il secondo monaco indiano a essere stato invitato in Cina. Da Mo venne invitato dall’imperatore Liang nel 527 d.C. … Quando l’imperatore proclamò che non gli piaceva la teoria buddista di Da Mo, il monaco si ritirò nel Tempio di Shaolin. Appena giunto al tempio, Da Mo si rese conto che i monaci erano deboli e malati, perciò si ritirò in una caverna per trovare una soluzione al problema. Quando ne uscì, dopo nove anni di ritiro, scrisse i due classici: lo Yi Jin Jing (Classico della mutazione dei Muscoli/Tendini) e lo Xi Sui Jing (Classico del Lavaggio del Midollo/Cervello). Lo Yi Jin Jing insegnava ai monaci come riacquisire la salute e rinforzare il corpo. Dopo avere praticato gli esercizi descritti nello Yi Jin Jing, i monaci del tempio notarono che non solo potevano riacquisire la propria salute, ma potevano anche aumentare la propria forza fisica. Quando tali esercizi venivano integrati all’addestramento marziale, l’efficacia delle tecniche aumentava in maniera esponenziale. Questo cambiamento segnò un ulteriore passo nello sviluppo delle arti marziali cinesi: la nascita del Qigong marziale. …” (da Yang Jwing-Ming, Qigong, il segreto della giovinezza, Edizioni Mediterranee, 2007, p. 38-41).
Questa breve citazione, oltre a tracciare un excursus storico sulle due principali civiltà asiatiche, ci porta immediatamente a capire quale sia il nocciolo della questione: l’importanza del corpo per lo sviluppo spirituale o, tradotto in termini alchemici occidentali, l’importanza di ricondurre alla Terra il composto elaborato. Non tutti si sentono attratti dalle discipline orientali, così come non tutti decidono d’intraprendere la propria ricerca interiore tramite un percorso alchemico, ma chi opta per quest’ultima scelta dovrebbe perlomeno avere come acquisita una particolare apertura mentale che lo porti a sperimentare ciò che di nuovo gli possa dare giovamento nelle propria continua ricerca. Personalmente ritengo che la disciplina marziale, in particolare le discipline cinesi e indiane, rappresentino un raffinato strumento d’indagine su noi stessi, sul nostro corpo e sulla nostra mente, tali da renderle imprescindibili all’interno del mio percorso alchemico: un potente strumento che amplifica la personale percezione sui propri limiti, sul proprio respiro e quindi sulla propria vita.

LUCA ORTELLI