Centro Studi Ermetici Alchemici

IL VIAGGIO VERSO NOI STESSI

Il viaggio rituale, anticamente, esprimeva un desiderio di cambiamento interiore, un bisogno di esperienze nuove, e testimoniava di una profonda insoddisfazione che spingeva alla trasformazione. Era considerato una metafora della vita umana, anch’essa transitoria e limitata, alla ricerca del senso del proprio procedere.
Il pellegrino, come il “cercatore” di oggi, per una qualsivoglia ragione oppure in seguito a qualche evento traumatico, veniva risvegliato alla consapevolezza che il Mondo non finiva laddove egli aveva posto i suoi limiti, e che l’esistenza è qualcosa di ben diverso dal “quieto vivere”.
Una volta partito, veniva guidato da “segni” speciali che incontrava sul suo cammino. Una volta staccatosi da tutto quanto gli era noto, egli focalizzava la sua attenzione su un ordine invisibile che si manifestava nei modi più svariati: attraverso i sogni, gli avvenimenti sincronici, le coincidenze inspiegabili, gli incontri inaspettati, le frasi captate casualmente, l’apparizione di certi animali…tutto diventava così la risposta a un interrogativo interiore come se, per qualche istante, il mistero potesse rivelarsi e dare responsi.
Il pellegrinaggio, nella sua lunga storia, ha sempre espresso, in luoghi e modalità diverse, la volontà di mettersi in gioco e spingersi nell’ignoto, per attingere, dal suo vasto serbatoio di risorse, le risposte più consone al bisogno di ricerca, di quella quiddità che si sentiva mancante: per alcuni era la grazia divina, per altri la soddisfazione di ciò che si sentiva come un dovere religioso, per altri, forse, solo un impulso all’avventurarsi al di fuori dei limiti del quotidiano, del ripetitivo, del conosciuto, per saggiare nuovi terreni, nuovi modi in cui si potesse convogliare il senso della propria esistenza. Un pellegrinaggio, in sostanza, non è che un viaggio verso se stessi.
Ecco perché il pellegrinaggio, a partire da quello puramente simbolico compiuto dagli aspiranti all’iniziazione ai primi misteri, quelli eleusini – i 25 chilometri che separavano Atene da Eleusi, dove la dea Demetra aveva rivelato i suoi segreti all’umanità che l’aveva accolta, fino ad arrivare a quello più famoso, il “Cammino di Santiago” che porta fino a Compostela attraversando la Spagna da un estremo all’altro, è sempre stata una delle maniere più obiettive per riuscire ad avvicinarsi all’iniziazione, e quindi all’illuminazione.
Un grande scrittore inglese di epoca seicentesca, John Bunyan, nel suo libro, “Il percorso del pellegrino” (Pilgrim’s progress) -che poi divenne il simbolo di un’epopea tutta interiore, proprio come lo divennero i testi del Graal- concepì l’esistenza umana come un pellegrinaggio, una semplice transizione verso una meta, quella ovviamente dell’incontro e della fusione dell’uomo con le realtà eterne.
Ovviamente egli scrisse quel libro – il primo in forma di romanzo nella storia della letteratura –con intenti allegorici e partendo da una concezione della vita prettamente cristiana, però ritengo che esso abbia un valore più universale, se si riesce a scavalcare l’aspetto dottrinale di cui è permeato il testo per intravedere, nel concetto generale che lo ispira, la rappresentazione dell’irresistibile richiamo sentito dagli uomini a ricongiungersi con gli echi vibranti della propria anima, a riconoscersi in un tracciato ideale che risponde alle voci più profonde della coscienza; ad approdare alla spiaggia sicura che tutti sogniamo, sbattuti come spesso siamo nel mare agitato dell’affannarsi quotidiano.
A recuperare insomma, quel “paradiso perduto” che sentiamo esistere dentro di noi (forse perché vi apparteniamo da sempre e ne conserviamo un barlume di memoria) e a cui a volte ci sembra perfino di poter dar forma concretizzando le nostre velleità più nascoste e sopite, per poi vederlo sfuggire inesorabilmente alla presa della realtà.
Molti pellegrinaggi sono stati originati, in epoca cristiana, dal desiderio di espiazione dei peccati. La parola “peccato” viene da “pecus”, latino, che significa “piede difettoso”, cioè piede incapace di percorrere un cammino: in questa ottica, il modo per correggere i “peccati” (intesi come difetti del proprio procedere, come errori che alterano il proprio tracciato esistenziale) era, e forse ancora è, quello di camminare verso una meta certa, adattandosi alle situazioni nuove e ricevendo in cambio le migliaia di benedizioni che la vita concede con generosità a quelli che chiedono.
E ognuno deve seguire la strada adatta ai suoi passi e, quando il sentiero rivela i suoi trabocchetti e le sue difficoltà, bisogna prepararsi a …cadere o a cambiare modo di procedere…rallentando, accelerando, o deviando.
In un certo senso il viaggio, inteso come pellegrinaggio, come esperienza rituale dell’anima, ha come scopo il ricongiungimento con la propria origine divina, con l’universo di senso delle origini.
Camminare, in un pellegrinaggio, non è soltanto un mezzo per arrivare da qualche parte: il camminare stesso diventa un fine, una forma di meditazione, un modo di essere, e il viaggio in sè diventa così altrettanto importante dell’arrivo. Per il pellegrino, ogni momento e ogni passo sono sacri: i luoghi sacri e i templi sono soltanto destinazioni simboliche. Durante tale percorso il pellegrino si spoglia lentamente dei suoi abiti mentali, dei suoi vizi, dei suoi attaccamenti e giunge nudo alla meta. Lì incontrerà il centro dal quale si diparte la Via del perfezionamento.
E’ il mystè (termine greco con cui venivano indicati gli adepti all’iniziazione misterica) che ricerca sulla terra il riflesso delle tracce lasciate dagli Dei nel loro contrassegnare la Via celeste, una Cattedrale grande quanto l’intero Universo, e il suo viaggio scaturisce dal desiderio di incontrare la conoscenza e la salvezza, un viaggio periglioso che lo conduce alle soglie dell’al di là, viaggio dove verrà circondato da un oceano di figure simboliche che gli indicheranno il percorso.
E spesso, pur essendo soli, si ha la sensazione di essere in compagnia di chi ci ha preceduto su quello stesso cammino, che è poi il cammino universale di ricerca dell’anima.
Nell’antichità, la valenza del viaggio sacro verso se stessi veniva spesso ripresa, simbolicamente, dalla figura del labirinto, che ritroviamo già in tempi remoti in incisioni su pietra del neolitico: ci si trova di fronte a un elemento culturale di tipo universale, le cui origini risalgono all’età della pietra. Nelle culture preistoriche prevaleva la linea a spirale a rappresentare la svolta nel corso della vita che indica una vita successiva. Infatti in origine i labirinti si riconoscono per la loro forma a spirale più o meno accentuata, che il più delle volte è semplicissima. Qualunque linea o meandro a forma di spirale, anche se apparentemente tracciati a fini solo decorativi, diventano un labirinto non appena proviamo a rappresentarceli come percorsi, e a calarci in essi come se fossero imprescindibili vie d’ingresso o di passaggio.
Questo è il fondamentale mitologema di origine religiosa (o meglio spirituale o cultuale), elaborato poi in forma di racconto e di immagine entro le più antiche civiltà mediterranee e articolato in molteplici varianti attraverso tutta la mitografia antica, medioevale e moderna.
Il simbolo del labirinto infatti lo troviamo anche e soprattutto verso la fine del medioevo, quando i Templari, forti di una saggezza esoterica acquisita in Oriente, patrocinarono la costruzione delle cattedrali gotiche, in cui quasi sempre l’immagine del labirinto, la cui forma sostanzialmente si ispira a quella della spirale, fu molto usato - raffigurato in diverse forme e tipi - sui pavimenti di molte di queste cattedrali come simbolo esoterico della ricerca spirituale. In questi edifici generalmente occupa la parte centrale del pavimento, in corrispondenza del punto di unione dei due transetti, simbolici dell’incontro fra cielo e terra e della coniugazione degli opposti, e rappresentava simbolicamente il pellegrinaggio dei fedeli verso il luogo santo per eccellenza, Gerusalemme.
Nelle cattedrali spesso non era neppure un labirinto vero e proprio, ma un tracciato spiraliforme e tortuoso, che costringeva a girare e rigirare su se stessi prima di raggiungere il centro, ossia Gerusalemme. Questo percorso tortuoso simboleggerebbe dunque una perdita intenzionale dell’orientamento, che alla fine del percorso produce una vera e propria rigenerazione. Nel dedalo la persona si smarrisce realmente e quando tocca la meta si scopre animata da una nuova consapevolezza.
Per questo il labirinto, nelle iniziazioni muratorie, è sempre stato usato come strumento di “destrutturazione” dell’io e di prova; il viaggio verso il luogo santo è esso stesso il simbolo di ciò che avviene alla fine dell’oscuro cammino iniziatico: il riconoscimento della propria realtà più intima, del proprio santuario interiore. Solo chi è qualificato dal punto di vista spirituale può addentrarsi in questi meandri senza perdere la bussola, che in questo caso è data soltanto dalla volontà e dalla fede. Chi ha percorso ritualmente i meandri del labirinto, una volta raggiunta la meta, accede a uno stato di apertura e intuizione che potrebbero illuminarlo intorno a verità altrimenti inaccessibili alla ragione.
Il labirinto perciò evoca sempre i misteri iniziatici, le vie devianti che portano all’illuminazione. La ricerca è soprattutto mistero , da affrontare in senso iniziatico; in greco, il verbo muein, da cui dipende e deriva il sostantivo mysterion (“mistero”), accenna al raggiungimento del centro, al “completamento”, prima ancora che all’iniziazione come “cominciamento”: il mistero che è nel labirinto è fin dall’inizio il suo centro, la sua fine; è quel luogo in cui si contiene la conoscenza, il cui possesso richiede morte e rinascita. Alla base dell’idea del labirinto infatti c’è un’idea mitologica della morte, che racchiude in sè anche l’idea della vita. La linea infinita del ciclo nascita-morte rinascita, che del labirinto costituisce l’idea portante, è anche il supporto figurativo della sapienza misterica e iniziatica; le successive espressioni filosofiche e figurative manifestate nella danza (come vedremo più avanti ispirata dal labirinto) sono soltanto successive e differenti configurazioni elaborative di un’idea, che è quella appunto dell’infinità della sequenza vita-morte-vita che sempre si ripete come la linea a spirale dei labirinti preistorici.
L’essere che percorre il labirinto riesce alla fine a trovare il luogo centrale, ossia, dal punto di vista della realizzazione iniziatica, il proprio centro: il punto più interno e centrale, il che ben corrisponde all’idea di centro spirituale.
Nella simbologia del labirinto gli antichi proiettavano la necessità di percorrere tutti i sentieri dolorosi e tormentati dell’esistenza per rinascere alla luce: il percorso degli inferi è infatti l’unico che possa effettuare l’uomo - altrimenti condannato ad una morte inevitabile - affrontandolo come gli eroi dei primordi. Il labirinto è il mondo nell’accezione cristiano-medioevale, concepito come una specie di regno infero. In tutte le sue varianti il labirinto è notturno ed infero, ma è anche simbolo dell’infinità.
Il labirinto rappresenta simbolicamente il nostro mondo: largo per coloro che vi entrano, molto stretto invece quando si voglia uscirne. Il problema è appunto la strada del ritorno, che è lunga, complessa; la difficoltà del ritorno è una caratteristica del regno dei morti.
Il Minotauro, al centro, è il rappresentante dell’inferno, il diavolo; il labirinto è la strada sbagliata che condurrebbe a sicura perdizione se Teseo (l’eroe archetipico, il modello della virtù) non intervenisse a salvarci.
Il labirinto è un archetipo, ossia un modello primordiale diffuso in tutto il mondo e le culture. Il percorso del labirinto rappresenta un viaggio alla ricerca del centro dell’essenza, pericoloso perchè può anche non riuscire, dato che esiste il rischio di smarrirsi.
La struttura primeva del labirinto fu intesa come un percorso obbligato, poichè il viaggio da compiere al suo interno costituiva essenzialmente un rituale d’iniziazione e non certo un problema da risolvere; per la mentalità arcaica non avrebbe avuto senso quel modello labirintico del dedalo inestricabile.
Come avventura dello spirito il labirinto perciò rappresenta un cammino simbolico che porta l’uomo dalla Terra al Cielo.
Che il labirinto possa rappresentare l’archetipo dell’itinerario dell’anima umana è un dato rintracciabile nel più famoso mito che ha come suo tema di fondo, appunto la struttura del labirinto: è la leggenda di Teseo, di Arianna e del Minotauro. Dietro le figure e le vicende della leggenda si può intravedere il suo più profondo significato: la via che l’uomo deve percorrere per ritrovare se stesso. La coscienza razionale, rappresentata da un uomo (Teseo) può trovare la via che la condurrà nel più profondo della sua anima solo attraverso l’irrazionale inconscio rappresentato da una donna (il filo di Arianna). All’interno dell’anima si cela un mostro (il Minotauro: che può rappresentare il modo innaturale in cui l’uomo deforma la sua coscienza, asservendola alla materia – o anche usando solo la parte sinistra del cervello) che sottrae all’uomo le sue energie (questo stanno a significare i giovani e le vergini divorate). Sconfiggere il mostro significa risolvere i problemi dell’interiorità, che, liberando la coscienza e disponendola allo scopo per cui è stata creata – e cioè alla conoscenza della realtà spirituale – e acquistando così energia e forza vitale, viene integrata in tutte le sue componenti razionali ed irrazionali, consce ed inconsce, emisfero destro e sinistro del cervello; l’uomo, in virtù di questo cambiamento, si trasforma dunque in eroe.
Del resto la figura archetipica dell’eroe è così amata perché esprime un tema primitivo: trovare se stessi e la via verso la coscienza di sé. Per questo nelle diverse culture i labirinti sono stati utilizzati anche come simboli di iniziazione: percorrere il labirinto è sinonimo di cammino iniziatico.
Teseo è il prototipo del guerriero-sapiente il quale sa avanzare nel tortuoso cammino di conoscenza e verità che lo conduce al confronto con il Minotauro, padrone del centro (della coscienza, l’inconscio) padrone del labirinto così come del sapere.
Un labirinto è la difesa a volte magica di un centro, di una ricchezza, di un significato. Penetrare in esso può essere un rituale iniziatico, come si vede grazie al mito di Teseo. Questo simbolismo costituisce il modello di qualsiasi esistenza la quale, attraverso una quantità di prove, avanza verso il proprio centro, verso sè stessa.
La più profonda verità del labirinto è che occorre un sapiente interprete perchè il suo nodo enigmatico venga sciolto e tradotto in un filo dialettico; che quello scioglimento è una battaglia, la cui posta da una parte è sempre la morte, dall’altra la conoscenza; e che pertanto il sapiente è un eroe, un combattente cui si richiede di non lasciarsi ingannare, e anzi di sconfiggere l’inganno con le sue stesse armi, di ingannare l’inganno smascherandolo e trovando il centro su cui far perno dapprima, e la via d’uscita poi.
“Essere” e “muoversi” nel labirinto è dunque un binomio che costituisce innanzitutto una condizione di esistenza e un progetto di sopravvivenza. In primo luogo dunque ci si “trova” nel labirinto, ed occorre “muoversi” lungo il percorso su cui esso si distende, puntando al centro per poter risolvere il problema e subito dopo cercando la via d’uscita, per sfuggire alla logica stessa di quella ricerca.
Il processo dell’individuazione (termine con cui Jung definiva l’ampliamento della coscienza) è talvolta descritto come un viaggio…. ma una descrizione più fedele sarebbe quella della spirale. Lungo questo percorso, il viaggiatore deve incontrare innanzitutto la propria ombra: non vi può essere completezza senza il riconoscimento degli opposti.
Alla luce di tutto ciò il Minotauro del labirinto cretese non rappresenta più delle forze “esterne” da sconfiggere; ma la propria zona d’ombra, che è indispensabile riconoscere ed integrare in sè; i propri mostri e fantasmi interiori il cui influsso è possibile superare solo nel momento in cui li si riconosce e li si smaschera nella loro illusoria realtà per poter poi proseguire il cammino e ritrovare il “bandolo della matassa” del filo di Arianna, il senso compiuto della propria esperienza esistenziale.
Il Minotauro rappresenta il cosiddetto “guardiano della soglia”, un punto di passaggio obbligato per la transizione a stati più elevati di coscienza: bisogna per forza affrontare ed illuminare gli angoli più oscuri dell’anima per poter accedere a livelli superiori di consapevolezza. Bisogna sconfiggere i nostri mostri, i nostri fantasmi interiori, annidati nell’inconscio.
Da notare per inciso, che il nome “Arianna” deriva da “Ariadne”, derivato a sua volta dal greco Aracne, cioè ragno: l’animale che intesse una tela molto simile al labirinto, e che è l’unico a poterla percorrere indenne. Essa, come lo spirito dell’eterno femminile rappresentato nelle cattedrali gotiche, fa da tramite tra la Terra (il Minotauro con i suoi impulsi bestiali) e il Cielo (Teseo, l’eroe solare che lo sconfigge), e rappresenta così il fine e insieme la fine, la conclusione della ricerca spirituale.
Noi siamo infatti sia il Minotauro che il vittorioso Teseo, l’eroe solare. Anche a noi Eros ha fatto dono di un lungo filo che ci condurrà fino al mostro (noi stessi), e quando lo avremo vinto con la nostra spada lucente, quel filo ci farà tornare alla luce e lasceremo dietro nell’oscurità il corpo ormai immobile della nostra stessa bestialità debellata.
Possiamo quindi tranquillamente affermare che il labirinto era il simbolo del percorso verso l’interiorità, verso la centratura interiore; e il mostro schiavo del labirinto, il Minotauro, non rappresentava soltanto il demone che è acquattato in ciascuna coscienza, pronto ad esarcerbare i pensieri negativi e l’indole ripiegata su se stessa. In lui vi era anche una componente numinosa, essendo figlio di una creatura di Poseidone e discendendo, tramite sua madre Pasifae, da Zeus e da Helios. Il combattimento col Minotauro equivaleva perciò, in chiave esoterica, alla discesa agli inferi della coscienza, dove però non mancano le numinosità multiple, come Paracelso e Jung hanno dimostrato, mentre l’uscita finale dal labirinto costituiva il segno che si erano affrontati (e vinti) i propri fantasmi interiori.
In altre parole, nemmeno il regno della morte (il Minotauro che inghiotte e divora) è unicamente negativo. L’immagine del terribile uomo-toro al centro della svastica-labirinto infatti può essere sostituita da una stella, che in effetti corrisponde all’altro nome del Minotauro: Asterion.
Così come la discesa agli inferi, anche il labirinto è il simbolo di un percorso di liberazione dell’anima, e la sua storia ha attraversato integra un arco di tempo di più di tremila anni...da esso si scende nel regno del segreto, della disperazione, ma anche della purificazione e del ritrovamento di se stessi e della libertà. Il labirinto esprime perciò la capacità dell’essere di destreggiarsi all’infinito attraverso ogni tipo di morte.
La ricerca (o “cerca” come sarebbe meglio dire) si connota precisamente nel Medioevo come viaggio, e non solo in senso metaforico: infatti le strade allora pullulavano di uomini in cammino, dai mercanti ai pellegrini, dai derelitti ai cavalieri erranti, dai lavoratori stagionali ai disoccupati in cerca di lavoro, dai giullari ai monaci predicatori.
La realtà diventa metafora quando la condizione del viaggio è vissuta come affine a quella della vita, sentita come un esilio o un breve passaggio sulla Terra, in cui si devono affrontare prove e fatiche, oppure quando viene scelta per uno specifico obiettivo di rigenerazione spirituale. La meta, nell’uno e nell’altro caso, è la stessa: per i medioevali la Gerusalemme celeste, il Graal, che noi oggi definiremmo l’integrazione nell’Assoluto, la realizzazione interiore.
Il labirinto, e anche quello rappresentato sui pavimenti delle cattedrali gotiche, è precisamente legato a questi significati metaforici: i fedeli credevano che, percorrendolo in ginocchio fino al centro, acquistassero le stesse grazie e indulgenze di un vero pellegrinaggio in Terrasanta, a Gerusalemme, a sua volta figura simbolica della “Gerusalemme Celeste”, il Paradiso.
Lasciandosi alle spalle un mondo irto di pericoli e di tentazioni a compiere percorsi fallaci, una volta entrati nella “casa di Dio”, la cattedrale, lo ritrovavano simbolicamente riprodotto in modo drammatico, ma strutturato attorno a un centro, accesso iniziatico alla sacralità,all’immortalità, alla realtà assoluta.In altri termini percorrere il labirinto significava affrontare il percorso di morte e rigenerazione che dà accesso alla salvezza.
Immagine speculare dell’errore (nel senso etimologico del “deviare dalla corretta via”) e dei ripensamenti della vita umana (le infinite giravolte in cui il fedele rischia di perdersi), il labirinto è la scoperta, o meglio ri-scoperta, del centro spirituale dissimulato e nascosto in ognuno.
Il cammino all’interno del labirinto, come quello utilizzato anche in epoca rinascimentale nei giardini delle ville, era concepito come lungo e faticoso, ma non mai vano: una volta raggiunto il centro, la “camera segreta”, si poteva essere certi, infatti, di trovare la via d’uscita dall’altra parte della figura, che consiste, simbolicamente, nel raggiungimento dell’integrazione di tutte le forze contrastanti tra la realtà terrestre e quella celeste, tra la realtà materiale e quella trascendentale.
L’uscita dal labirinto della mente succube delle complicazioni dell’intelletto raziocinante ci introdurrà nel regno celeste di una nuova sfera vibrazionale, situata ad un livello superiore.
Come si diceva, il simbolo del labirinto appartiene comunque a culture molto antiche e si trova, allo stato naturale, nel tracciato complesso di corridoi che davano accesso a grotte preistoriche. Il labirinto è così associabile alla caverna e il percorso che vi si compie, attraverso una sorta di viaggio iniziatico, permetterebbe l’accesso al centro del mondo, cioè al santuario interiore della natura umana, che, una volta attivata, può trasformare l’uomo in un essere compiuto.
Molte antiche coreografie venivano impostate su schemi labirintici, anzi vi è chi sostiene che il proto-labirinto sarebbe addirittura stato una danza in sè. Infatti il percorso labirintico, necessariamente complicato, divenne una danza rituale eseguita nella Grecia arcaica e nell’Italia arcaica e che in Etruria era noto come “truia”, (o trulla o trua) che significa “danza del mulinello”.
La danza presenta la prigione, ma anche la liberazione: allude alla morte, ma insieme anche all’oltre-morte.
La caratteristica più rilevante delle danze labirintiche è il fatto che esse contemplassero un’inversione di marcia, segno evidente, secondo l’antropologo Kerenyi, di un processo iniziatico, che avrebbe avuto al suo centro una figura femminile, la “Signora del labirinto”. Le danze labirintiche prevedevano quindi una svolta, l’inversione di rotta sotto la sfera d’azione di una Dea , che nel contesto della tradizione è una Signora degli Inferi, indubbiamente Persefone (corrispondente greco della Proserpina dei romani), la regina degli inferi che però si svincolava periodicamente dal regno delle tenebre per tornare sulla superficie della terra per portare nuova vita sotto forma di Demetra, la dea della rigenerazione della terra.
Quel che contava era di svoltare, di cambiare il senso della marcia una volta giunti presso di lei: ed è questo per l’appunto il ritorno dalla morte alla vita. La “morte” forse è la nostra stessa transitoria natura umana, da cui si spicca il balzo per afferrare la nostra vera identità superiore, la nostra divinità intrinseca, la “vita” della consapevolezza del proprio autentico Sè.
In un tipo di danza labirintica, nell’eseguire la figura di danza le ballerine (questa infatti era una danze esclusivamente femminile) tenevano tra le mani una fune. La fune come imprescindibile componente rituale e lo strano nome della danza, detta geranos, cioè “danza delle gru” sono due elementi significativi: queste “gru”, infatti, le danzatrici, venivano trascinate nella danza dal maestro della danza, che teneva il capo della corda fra le mani, mentre le ragazze tenevano il resto della corda; essa ovviamente simboleggiava il filo di Arianna. E come quel filo dapprima si dipanava e poi si riavvolgeva, così la fune guidava le danzatrici della “geranos” prima verso l’interno e poi di nuovo all’esterno, a simboleggiare l’entrata di Teseo fino al centro del labirinto e poi la sua uscita mediante il filo di Arianna. Giunte al centro della spirale, le danzatrici infatti si volgevano indietro proseguendo un movimento che fin dall’inizio ruotava attorno a un centro invisibile, “srotolando” simbolicamente il filo: il bandolo della matassa. Da quel momento, perciò, la direzione non era più quella “involutiva” della morte, bensì quella della rinascita.
La stessa svolta o conversione di rotta viene così detta e danzata sotto il segno del mistero iniziatico: quel che conta, giunti là dove risiede l’ineffabile, il mostro Minotauro oppure la dea che presiedeva simbolicamente a quel misterioso centro danzato del labirinto, è svoltare, cambiare il senso della marcia: ed è questo per l’appunto il ritorno dalla morte alla vita, un nuovo modo di essere.
Il labirinto, con la sua forma spiraliforme, allude ai processi di trasmutazione interiore, al lavoro che in linguaggio alchemico si definisce “La grande opera” e cioè la riconquista della piena consapevolezza spirituale: l’illuminazione, per dirla in termini più orientali.
Possiamo affermare in merito che la simbologia in questione ci parla della parte del percorso più difficoltoso dell’”Opera”, quello che conduce al centro, dove fermentano le energie più sedimentate e pesanti, attraverso la cosiddetta “opera al nero”. Qui le due nature dell’uomo, quella luminosa e quella oscura, lotteranno tra loro (come Teseo e il Minotauro) per creare l’equilibrio che deve legare assieme i due aspetti preposti alla formazione androginica.
Insomma il labirinto, la sua unicità, le sue valenze ermetiche, le implicazioni profonde che lo collegano a miti e simbologie vastissime, racchiude nel suo universo in miniatura l’infinito, le correnti dello spazio spirituale e spiritualizzante.
E a ciascun uomo è dato di percorrere un solo labirinto, e solo quello che a lui compete; e ognuno deve, per di più, scoprire il proprio modo personale di percorrerlo: ognuno ha una maniera propria.
Ognuno, per di più, ha la propria mappatura interiore, unica e irripetibile, e deve trovare i percorsi che si adattano alla propria geografia interiore, con i propri tempi e i propri modi. Quello che funziona per me può non funzionare per te e viceversa.
La mappa dei territori metafisici può aiutare l’esploratore interiore a scoprire la meraviglia, la maestà e la magia personale del mondo di ciascuno di noi, costellando la ricerca di punti di riferimento; un po’ come una caccia al tesoro, in cui gli indizi non vengono forniti tutti al medesimo tempo, ma un po’ per volta, principio che parte dal presupposto di stimolare l’ingegno e le risorse per metterle al servizio della meta che ci si è prefissata, ma ancor più del cammino per raggiungerla. Il territorio dell’interiorità umana in rapporto alle realtà metafisiche è molto vasto, e può essere definito in molti modi e da molte diverse prospettive. La sua mappatura può servire da orientamento, ma mai sostituirsi al calarsi vero e proprio nel territorio, affrontandone le incognite, i rischi e le ricompense; una volta acquisita dimestichezza con tale territorio ci si può lanciare nel percorso tutto personale dell’esperienza diretta, e a quel punto non serve più nessuna mappa, perchè ognuno traccerà la propria camminando verso la meta.
Inizia così il lungo viaggio per il ritrovamento e la ricomposizione delle nostre parti, per “conoscere noi stessi” e scoprire la nostra più profonda natura, allargare i confini della mente e della realtà, e, di conseguenza, estendere il nostro concetto di “io”.
Si imparerà a comprendere e guidare i meccanismi della nostra mente e della nostra anima; il baricentro dell’io si sposterà da un’identità materialistica ed illusoria fino all’essenza divina che veramente siamo.
E un viaggio, con il suo itinerario di ritorno, diventa un cerchio sacro come l’Uroboros degli alchimisti, il serpente che si morde la coda, simbolo di completamento dell’”Opera” degli alchimisti, e cioè la restituzione completa dell’uomo alla sua totalità originaria.
Ne sapeva qualcosa Jules Verne, autore “iniziatico”, che parla sempre di viaggi, e del ritorno da essi, nei suoi romanzi. Per perseguire la sua ricerca l’eroe protagonista degli scritti di Verne non può rimanere statico, è necessario che parta (e poi ritorni) come i pellegrini di un tempo, che si recavano, come oggi, a Santiago di Compostela. L’eroe verniano bisogna che “circoli” come il sangue, e che lo faccia in senso “circolare”.
E anche qui, in un certo senso lo scopo del viaggio è secondario, poiché l’essenziale è il viaggio in sé; questo stato errabondo infatti rappresenta una destabilizzazione, una rottura con il quotidiano, uno stato privilegiato nel quale l’esperienza, e in particolare l’esperienza iniziatica, si fa possibile. Circolare senza sosta per imparare ad essere, viaggiare come via di accesso allo spirituale, pellegrinaggio dello spirito.
Il viaggio, nei romanzi di Verne ma anche nella realtà, è costellato di incontri, avvenimenti, compagni di viaggio e a volte anche esseri ostili. Ma nonostante questa moltitudine di “testimoni” ognuno di noi “è solo sul cuore della terra”, come diceva Quasimodo, nel senso che il viaggio più importante, quello interiore, lo possiamo solo compiere in compagnia di noi stessi.

A cura di Simon