Comunemente, l'Alchimia è creduta essere quella disciplina che pretende di trasformare i metalli, anzi il piombo, in oro, e quindi sostanzialmente una protochimica; niente di più inesatto, poiché se è pur vero che “materia prima” dell'opera alchimica è – anche – una campionatura di sette metalli, si tratta di tutta una metafora, che l'alchimista però vive sulla sua pelle.
E, direi proprio che il linguaggio, tutto il linguaggio, alchemico è mediato da metafore e da simboli per cui l'operatore entra in quella dimensione (l'immaginale) che costituisce la sala macchine del pensiero umano; si pensa infatti per immagini, col vantaggio di disporre di un discorso più ampio e più significativo di quello concettuale.
Orbene, in parole povere, l'Alchimia è una risposta comportamentale (che cioè esige un modo di essere nella vita di ogni giorno) al problema dell'esistenza, certo in via d'ipotesi di lavoro, come in via d'ipotesi è d'altronde ogni risposta a questo problema.
All'angosciosa domanda: Che senso hanno vita e morte? La mia vita, la mia morte?” l'operatore alchimico, come può dirsi in termini moderni l'alchimista, non risponde con un atto di fede in un Dio, né con l'affermazione categorica dell'ateo, che nega Dio e con ciò esprime un atto di fede al negativo, né con quella dell'agnostico che non esclude la possibilità di un Dio ma nega la possibilità di conoscerne la realtà.
L'operatore alchimico – sto dicendo – neppure rimuove la domanda, ma prende spunto da una elementare considerazione: vale a dire che la vita può non essere un bene a perdere e certo si è che se c'è un Principio (il solo fatto di esistere lo presuppone) questo non può non essere presente ovunque e comunque: presente nei diversi modi esistenziali dal subatomico all'umano, che è omnicomprensivo per sé di ogni altro ed ha la sua massima espressione nella consapevolezza, ossia nella coscienza.
L'alchimista non esclude perciò, tout court, che ci sia nell'uomo più che un segno, un punto, meglio uno stato di comunicazione fra l'effimero e l'eterno, il finito e l'infinito, fra l'individuo anagrafico (qual'è ogni essere umano) e l'individuo transpersonale – che il credente chiama Dio – ma che ben può dirsi Il Principio.
E tutta l'Opera alchimica – che si dice la Grande Opera – metaforicamente sta appunto nel trasmutare l'essere umano quale individuo comune, cioè “piombo” in “oro”, con la trasposizione della sua coscienza dall'anagrafico al transpersonale.
E' sostanzialmente lo stesso rapporto del mistico, che però l'intende in chiave religiosa, come unione con Dio.
E tutto il simbolismo alchimico, peraltro ricchissimo e che ha una sua ben precisa ragione storica, è ordinato non già a manipolazioni di metalli, di fuochi, di fornelli, di storte, di alambicchi, etc. etc. sebbene alla problematica ed alla tematica di sopravvivere alla morte individuale, ossia dell'io storico registrato all'anagrafe, grazie alla presa di coscienza della profonda identità transpersonale dell'operatore alchimico col Principio in lui e che in figura di discorso tecnico è detto “deus absconditus”, dio nascosto.
Sin da gli inizi, in Alchimia, la pratica di laboratorio è una sovrastruttura che anche se materiale, fisica – per meglio intendersi – maschera la realtà di una infrastruttura spirituale, psichica; e in questi termini, in quest'ordine di idee il laboratorio alchimico deve riconoscersi nell'Operatore stesso che è il soggetto e l'oggetto ad un tempo di ogni operazione in tutto il processo, insomma, della Grande Opera.
E' infine comprensibile perché nessun alchimista può aver fatto, vita natural durante, l'”oro”.. nel senso di aver superato la morte.
L'Opera infatti si sigilla proprio con la morte e solo soggettivamente è verificabile, nel caso in cui lo possa essere.
Ogni attestazione e/o dichiarazione di aver fatto l'”oro” è una presa per i fondelli di chi ci crede, mentre però ha nella psicologia dell'alchimista una sua umana trainante giustificazione, di ordine appunto psicologico.
A riprova che l'Alchimia, da gli alchimisti autentici, sia stata e sia giustamente intesa, vale il fatto che negli scritti alchimici è del tutto evidente il disinteresse per i fenomeni fisici - e per gli ingredienti naturali, presi alla lettera, non meno del fatto che i procedimenti hanno una logica che non è quella della pratica utilità.
La chimica e la metallurgia dell'Alchimia furono e sono rimaste una chimica e una metallurgia di gergo, non tanto di copertura, quanto piuttosto di apertura all'intelligenza dei simboli!
Dovrebbe comunque tagliare la testa al toro (mi riferisco all'assunto della possibilità di una Alchimia di fornello) la considerazione che la simbolica metallurgica è una fra le diverse cui gli alchimisti sono ricorsi e ricorrono per rappresentare l'iter operativo e nessuna di queste neppur si presta a una lettura travisata; ma “quos deus vult perdere dementat prius”...
GIAMMARIA (da Alchimia Magna Ars - Saggi su l'Alchimia- Edizione Privata)