Centro Studi Ermetici Alchemici

VOCI DELL'INFINITO

Per esprimere qualcosa che è infinito e quindi indefinito, il linguaggio dell’alchimia non può che essere pieno d'immagini, simboli, analogie, allegorie e paradossi, e quindi assai simile a quello della poesia e dell’arte in genere. Difatti arte e alchimia nel corso dei secoli si sono sempre influenzate a vicenda, influenzando a loro volta le persone più sensibili, in un fitto e misterioso intreccio di collegamenti ad archetipi e miti comuni, utilizzando il linguaggio sacro e universale dei geroglifici, delle immagini simboliche che emergono dall'inconscio.
Ma occorre chiarire che l'attività artistica è utilizzata dagli alchimisti a fini sperimentali, introspettivi o dissociativi, per andare oltre le abitudini, per rompere degli schemi. L'arte può essere paragonata ad un potente solvente del componente fisso, rigido o sclerotizzato, del composto umano e nel contempo come potente fissante del componente mutevole ed evanescente.
Tutte le forme di arte tendono a dilatare, sia pure in misura diversa, le coordinate dello spazio e del tempo, che limitano la percezione dell'uomo alla comune realtà materiale, del tutto superficiale. Esse servono a raffinare i cinque sensi fisici, che altrimenti sono come degli otturatori delle realtà sottili, fuori dell'ordinario, sottostanti quella grossolana. A esempio i sensi comuni non percepiscono una gamma enorme di sapori e profumi, non raggiungono le fasce di vibrazioni luminose che partono dagli infrarossi e dagli ultravioletti, rimangono fermi ai suoni udibili dall'orecchio, non percependo armonici superiori o ipertoni. Ma la sperimentazione di queste realtà è fondamentale per la formazione di un sesto senso, che permetta l'accesso a dimensioni metafisiche.
La scultura è ancora legata alle coordinate dello spazio, mentre per la durata quasi eterna del materiale utilizzato tende ad espandere la dimensione del tempo. Essa segue lo stesso processo generativo della natura, che dal piano metafisico delle idee innate o degli archetipi trasforma continuamente le forme sul piano fisico, attraverso una continua interazione del concavo con il convesso.
La pittura è più slegata dalle coordinate dello spazio, soprattutto quella impressionista o non figurativa, ma ancora legata alla dimensione del tempo, attraverso il processo di stesura dei colori, che vanno disposti secondo i tempi e le dinamiche cromatiche della natura.
La poesia è svincolata dallo spazio e dal tempo ed era anticamente esperienza sacra, perché metteva l'ascoltatore in contatto immediato con l'attimo presente, allo stesso tempo immanente e trascendente rispetto alle apparenze della vita. La poesia, a differenza della filosofia, è collegata alla sapienza della Tradizione, perché coltiva un linguaggio fluido e fluttuante, che esula dai principi della razionalità. Essa non piega le parole al gioco della logica staccata dalla vita e dalla sua fonte spirituale. La vera poesia è disciplina contemplativa e condizione estasiata della mente, si pone in una posizione limite: tra l'assoluto e il manifesto, tra il visibile e l'invisibile.
Nell'antichità il poeta era sacerdote, mago, sciamano, incantatore, profeta e non si riduceva a semplice letterato o intellettuale. La sua recitazione era rituale, mescolata al mito, all'azione teatrale della manifestazione degli archetipi, alla musica, alla danza, accompagnata dalla lira, strumento sacro ad Apollo, o dal flauto oboe, sacro a Dioniso. Tra l'altro la poesia è un insieme di parole scritte, che reca in sé e intorno a sé la musica nel ritmo e nella metrica nelle strofe.
La musica è arte spirituale per eccellenza, perché del tutto slegata dalle coordinate esteriori del tempo e dello spazio. Nel lavoro di ascolto si possono riconoscere le diverse energie che si manifestano nei ritmi, nelle intensità e nei timbri dei suoni, nelle melodie e nelle armonie, avvertendo nel contempo i diversi effetti umorali e psichici che producono. Se si assorbono i vari flussi dinamici che scorrono nei brani musicali, lo stesso campo percettivo dell'ascoltatore può divenire altrettanto fluido ed entrare in risonanza con i ritmi e l'armonia della natura e del proprio metabolismo, col proprio spazio temporale interiore, più profondo.
Nelle melodie la successione delle note si snoda in questo spazio interiore secondo una precisa linea di pensiero, che calma la mente, la ispira e la sospinge verso dimensioni elevate. Le armonie, costituite dalla contemporanea vibrazione di almeno tre note, danno spessore e intensità al suono, emozionando e sciogliendo il cuore, per fare sperimentare uno stato di amore fecondo, creativo. I ritmi scandiscono il tempo ordinario per accedere ad un tempo interiore accelerato, concentrato, per dare energia e volontà ai centri sottili del corpo.
Il canto e la danza sono le forme d'arte iniziatiche per eccellenza, quelle più evolutive per l'alchimista, perché uniscono la musica e la poesia alle dinamiche del corpo, della sfera emozionale e mentale dell'uomo. Con queste sperimentazioni artistiche è possibile lavorare con gli archetipi, con le forze planetarie ed elementari che agiscono all'interno dell'uomo.
Infine l'architettura può costruire templi, edifici sacri, con dimensioni e forme particolari, tali da potenziare al loro interno l'esperienza spirituale della musica, del canto e della danza. Essa inoltre può portare al giusto stato d'animo, per apprezzare le opere di pittura o di scultura.
In passato il maestro architetto del tempio raggiungeva il traguardo più ambito quando l'orientamento con i quattro punti cardinali, l’armonia delle masse e i rapporti geometrici della costruzione erano parte integrante di un progetto simbolico, non evidente a prima vista. Inoltre, sulla base della geometria sacra, di concezione neo pitagorica, molti architetti – tra i più noti Vitruvio, Leon Battista Alberti, Palladio – costruivano edifici che rispettavano precisi rapporti armonici e la relazione esistente tra espansione del suono e figura geometrica.
Queste costruzioni hanno pertanto un’acustica sofisticata e la musica sacra e i riti che vi si eseguono possono sviluppare una vibrazione potente, perfettamente accordata e in sintonia con le energie cosmiche. In pratica venivano edificate volte a botte o a sesto acuto, forme geometriche che esprimono i rapporti numerici su cui si basano gli intervalli armonici più suggestivi, con risonanze di grande forza ascendente. Essi sono gli intervalli di ottava e legati al rapporto numerico di 1 a 2, ad esempio figure architettoniche costituite da un doppio quadrato; gli intervalli di quinta e legati al rapporto di 2 a 3, ad esempio un quadrato più un mezzo quadrato; di quarta e legati al rapporto di 3 a 4, ad esempio un quadrato più un terzo di quadrato. Inoltre veniva utilizzato lo stesso rapporto aureo di 1 a 1,414, ad esempio una sala rettangolare, la cui lunghezza è uguale alla diagonale di un quadrato, che ne determina invece la larghezza.
A partire dal XV secolo, tramite l’arte dell’incisione e della stampa, i testi alchemici sono arricchiti con immagini suggestive, ermetiche, perché destinate alla meditazione. Ma queste stesse immagini si ritrovano spesso nei templi pagani, nelle basiliche e cattedrali cristiane. Come per il pittore o lo scultore, per l'alchimista un’immagine ha una potenza comunicativa di significati maggiore rispetto ad un concetto astratto, di per sé freddo ed inerte, quindi ricordato con difficoltà ed assimilabile solo superficialmente.
In precedenza, prima della scoperta dei caratteri mobili del torchio tipografico e della diffusione di tali immagini tramite i testi stampati, solo la pittura e la scultura negli edifici di culto potevano trasmettere ai posteri i simboli della conoscenza tradizionale. Pertanto l’alchimia nei secoli precedenti ha influenzato direttamente o indirettamente la realizzazione in tali edifici di capitelli, bassorilievi, mosaici, vetrate e affreschi, le cui allegorie ancora esprimono silenziosamente i fondamenti della propria conoscenza.
Attraverso l’ispirazione e la sperimentazione artistiche si sviluppa una più sensibile immaginazione e con questa è certamente più agevole utilizzare il metodo analogico intuitivo. Con esso ben presto l’alchimista realizza che ciò che è in alto è come ciò che è in basso e che ciò che è in basso è come ciò che è in alto, avvertendo la corrispondenza tra il macrocosmo universo ed il microcosmo uomo, la correlazione esistente tra le parti più grandi e le parti più piccole, anche microscopiche, del mondo.
L'opera alchemica è anche sperimentazione dei processi generativi e rigenerativi della natura, attraverso i quali si cerca di trasformare la vita umana, nel modo di essere e di fare, in una vera e propria opera d'arte. Per intenderci, opera d'arte è ciò che esprime in una forma innovativa e coinvolgente, oggettivamente, valori e significati eterni, universali.
Nella propria esistenza l'alchimista cerca d'imitare i procedimenti e le forme armoniche della natura in maniera non ripetitiva, ma creativa, modificandone il ritmo e le finalità. In questo modo l'alchimista può diventare l'artefice del proprio destino, giacché dà concretezza alla sua immaginazione più elevata e modella la realtà materiale, sé stesso e il proprio comportamento secondo tale immaginazione.
La finalità dell'alchimia, come quella dell'arte, è determinare un'intensa sintonia tra la mente dell'uomo, gli archetipi universali che animano il mondo e il Principio Metafisico Eterno, e presupposto di tale risultato è rendere spirituale o sublimata la parte materiale e rendere materiale o fruibile la parte spirituale della complessa struttura umana, raffinandone i componenti grossolani.
Di fatto dietro un genio artistico si cela sempre un nume spirituale che vuole emergere. Ma se l'attività artistica non è accompagnata da una raffinazione dell'anima, tale genio artistico si trasforma inevitabilmente in un ente diabolico, che spinge l'artista verso la dissoluzione, e come esempio si possono citare le vite condotte da alcuni geni: Caravaggio e Leonardo, Mozart e Monteverdi, ecc..
L'alchimia può definirsi il migliore utilizzo possibile delle forze contrastanti e dei componenti materiali grezzi a disposizione dell'uomo, in maniera che l'amalgama, l'unione equilibrata di elementi di per sé eterogenei, non produca una semplice somma delle parti che formano il carattere e la personalità, ma una moltiplicazione esponenziale di tutte le sue qualità potenziali, virtuali. Se l'armonizzazione dei componenti umani è perfetta, si produce una loro assonanza o sinergia, i cui effetti si estendono a dimensioni non solo fisiche, ma anche metafisiche.
Dato che l’alchimia presuppone un intimo legame tra pensiero e materia, tramite l’intermediazione delle immagini, la meditazione dei simboli, l'attivazione delle corrispondenze che legano il microcosmo uomo al macrocosmo universo, è fondamentale immaginare una serie di  progetti sempre più impegnativi e poi operare per farli nascere in concreto, esattamente come erano stati prima immaginati. Ciò può avvenire con il lavoro di laboratorio, con l'operare nel campo dell'arte, delle lettere, della scienza, nelle relazioni umane, sviluppando al massimo il proprio ingegno, la propria volontà, il proprio entusiasmo, il proprio amore disinteressato.
Il concetto base dell'alchimia è che un corretto procedimento di lavorazione esteriore, ad esempio la raffinazione di un materiale o la realizzazione di un progetto concreto, si riflette simpaticamente all'interno dell'operatore ed accelera un analogo e contemporaneo processo di lavorazione interiore, spirituale. Ma il concetto è valido anche in senso inverso e il perfezionamento interiore influenza simpaticamente la trasformazione di ciò che è materiale o esteriore. Ciò si avverte nell'opera del pittore con i colori, del musicista con le note, dello scultore con il marmo, del poeta con le parole, dell'erborista con le piante, del medico con i farmaci, dell'iniziato con i rapporti umani.
A tal scopo, oggigiorno, è impensabile proporre una lavorazione metallurgica con forni e crogioli. E' preferibile dedicarsi ad attività pratiche più semplici e meno costose, che comunque coinvolgono i campi energetici della natura e dell'uomo: attività artigianali, artistiche, sportive, marziali, perfino culinarie o di giardinaggio. Ma fra queste le attività letterarie sono di fondamentale importanza. Attraverso la meditazione l'alchimista distilla e condensa idee o immagini ermetiche, che sono portali per accedere al mondo eterno degli dei e per raggiungere, con la spinta degli archetipi divini, gli strati profondi della psiche dove il Nume è in attesa di manifestarsi. Ma questo accesso rimane incompleto, se la fase solvente della meditazione non è accompagnata subito dopo dalla fase coagulante della scrittura, che raccoglie quanto colto dalla mente e che altrimenti andrebbe in gran parte dimenticato.
Pertanto coronamento e sintesi della meditazione è scrivere, in forma logica e ordinata, quanto fuoriesce dalla profondità della psiche e scorre velocemente in un sognare ad occhi aperti, fuori dal tempo e dallo spazio, come passeggere nuvole nel cielo. Lo scritto può essere uno strumento di lavoro assolutamente personale, oppure una pubblicazione destinata ad altri, purché impegnati nello stesso percorso.
Questi segreti o secreti della dimensione immaginale sono come degli iceberg di cui si vede affiorare dalle acque profonde solo la punta. Si comincia a scrivere senza particolari aspettative, staccando i sensi e l'attenzione dalla realtà esteriore, seguendo la corrente di un ruscello che sgorga dalla roccia e di cui non si conosce a priori il percorso, lasciandosi guidare dallo stato mentale con onde cerebrali di tipo alfa, partendo da ciò che si è intuito dopo la meditazione. Poi il resto del materiale sommerso emerge a segmenti successivi, scrivendo e riscrivendo sullo stesso tema svariate volte.
Alla luce di tutte queste considerazioni si può affermare che l’alchimista è un poeta, perché realizza attraverso il suo percorso operativo, come avviene per lo stesso poeta, che l’esistenza comunemente vissuta è come un sogno illusorio, da cui occorre destarsi entrando in sintonia con l’anima sensibile e invisibile della natura.

GIORGIO SANGIORGIO

NIGREDO – ATTO PRIMO

I

Un gioco
con le dita
sottili
sui vetri
umidi
appannati
della finestra
della mia anima.

Ghirigori
icone
spirali
di trasparenza
su di un mondo
sottostante
vestito
in grigio fumo.

II

Come un’aurora
la passione
sorse dal mare
e il suo riverbero
tinse di sangue
i miei capelli.

Fu pure tramonto:
tutto scivolò
dietro i monti
fra le cose
che non tornano.

Rose in boccio
che la vita mi regalò
appassiscono
inodori
nel mio bicchiere
di malinconia.

ne cercate L’ombra nera
della tua assenza
s’è posata nel cuore
come un annegato
sul fondo
di uno stagno.

Nella macerazione
il lievito
di nuovi odori
ancora non avverto.

III

Dalle vicine cascate
giunge un gemito
prolungato
come di anime
che precipitano
nello scorrere del tempo.

Ma il grande fiume
continua
ad infrangersi
con spruzzi e scrosci
di musica corale.

Dagli esili pioppi
con brevi voli
cadono
foglie inanimate
e spariscono
negli archi di vetro
della corrente
che sembra ruggire.

IV

Voi alchimisti
possedete
una chiave
fatta di nulla;
eppure pesa
nelle tasche.

In secoli bui
ricercate
la misteriosa
serratura;
ma la porta
non si trova.

Il vostro fabbro
era un pazzo
ma di certo
era un Genio;
vi ha tornito
una chiave
per dischiudere
il cielo.

Forse dovreste
gettarla lontano;
troppo in alto
brillano poco
le stelle
che insonni
state scrutando.

V

Con le gambe
spezzate
sulle strade
muoiono
poeti randagi
e nessuno
se ne cura.

Inchiostrano
pagine
indifferenti
come ghiacci
o terre laviche.

Con vergogna
recuperano
poche gioie
dalle discariche
dei giorni
che passano.

Non imprecano
la loro sorte
di solitari
cercatori d’oro.

Chi ha il tempo
di ascoltare
estranei
sognatori
ipersensibili?

VI

Nella pioggia fitta
il volto duro e rugoso
della montagna
rassomiglia
ad un vecchio deluso.

Calanchi crudeli
ne feriscono le coste
ed arbusti maligni
si aggrappano
a chiazze alla sua cima.

Pareti di roccia
affrante dalle venature
spigolose e contorte

si sgretolano
in ghiaioni frananti.

Abbandona il suo nido
fra rocce e rovi
come un’anima
che si diparte
il corvo color della morte.

VII

Come entità scissa
dal suo nucleo
nascondo
con vergogna
il monco cordone
ombelicale.

Come corpo avulso
stringo i denti
per tacere
ai ciechi e ai sordi
la strana solitudine.

Rischio di perdermi
in un ginepraio
di voci straniere
che mi rincorrono
come guardie ostinate.

O silenziosa Luna
voglio tornare
ad occupare
il mio posto vacante
nella tua casa
di dolce assonanza.

Tutto il mio sangue
è sparso
nei labirinti
di suggestioni
e desideri sbiaditi.

In questo pianeta
di locuste
ogni filo d’erba
è divorato
e in giardini
di latta e cartapesta
siedono
eterni ubriachi.

Chi ha plastificato
il mio cielo?
Chi ha livellato
i miei monti?
Qui l’amore
è solo la soluzione
per salvare la specie.

O silenziosa Luna
su scorrevoli vie
riconducimi
ad un fattore comune:
è troppo udibile
e lancinante
il preciso richiamo
dei luoghi
donde sono venuto.

VIII

Tanti giorni di gioia
fuggirono
come spaventate
creature selvatiche.

Meravigliose ore
deridono
il proprio autore
che si è illuso
di trattenerle
in gabbie dorate.

Appesi a un chiodo
sulla parete
della sala da pranzo
rimangono
istanti incorniciati.
come in un museo.

IX

Alcuni sogni fa
vivevi
dentro una bolla
di sapone
come un artista
stravagante
e senza limiti.

Oramai calvo
di progetti
e soffocato
da cravatte
e giacche scure
vegeti
come pingue
ragioniere
di mezza età.

In pantofole
e seduto
su di una comoda
e prevedibile
obbiettività
non ti rimane
che leggere
un qualche libro
scritto da altri.

X

Sono fossili
immoti
gli occhi
che amavano
un tempo.

Lavati
da remoto
pianto
sembrano
inquietanti
ossidiane.

Sono sfere
tenebrose
perché
smerigliati
da dolori
acquietati

Solitarie
pozze
di grigiore
indefinito
rispecchiano
perdute
occasioni.

XI

Indistinto nella greve oscurità,
tossicchia incerto il motore
d’un barcone carico di reti.

Qualcuno salpa per il largo,
srotolando le strette maglie,
per catturare branchi erranti
di guizzanti esseri argentati.

Con un fascio di luce, il faro
come sempre indaga fra i marosi.

Fievoli e baluginanti lampare,
come occhi stanchi di vecchio,
rispecchiano sul liquido nero.

Esala dai boccaporti fumosi
dei pescherecci, lungo il molo,
un odore di marcio e di fritto.

Sui fianchi di assi incurvate
risaltano dei nomi sbiaditi
-Gioia- Fortunato- Abbondanza-
e la luna v’infonde tratti irreali.

Contro gli scogli dondolano
le chiglie inerti e sfondate
di sogni, privati delle velature.

Come cortigiane, s’incurvano
le reti a bilanciere sull’acqua
e cigolano argani arrugginiti.

Sulle sponde la corrente rilascia
teste di pesci e briciole di vita.

XII

Stamani nevica
sui tetti e le vie
del mio quartiere.
Sembra si annunci
il mio destino.

Fiocchi cadono
ipnotici
fitti e interminabili.
Volteggiano
impalpabili voci
nell’aria rarefatta
del mio spirito.

Con folate taglienti
il vento conduce
uno strano girotondo
nella vuota piazza
del mio cuore.

Il cielo incombe
algido e spettrale.
Diffonde
un lento immobilismo
in tutto il mio corpo.

Al mio interno
pieno di apprensioni
si rovescia leggero
e senza schizzi
un siero soporifero.

Continuamente
cadono cristalli
di vita pietrificata.
Senza più colori
si stendono
con determinazione
sui miei dolori.

Come i giorni
che scorrono
i grumi d’acqua
si posano
in cumuli informi.

Muti messaggeri
recano in dono
un manto di oblio
e il sangue
nelle arterie
si è ormai ghiacciato.

Ma scopro
nella neve fresca
il silenzio
incontaminato.

VIRIDITAS – ATTO SECONDO

XIII

Da uno strappo nel cielo
fuoriesce la luce
che può ferire il sonno.

Da cuori sotterranei
fuoriesce poesia
che scorre in rivi tumultuosi.

XIV

Sullo sfondo del cielo
l’azzurro si offusca:
in vorticose evoluzioni,
nere sibilanti creature
si manifestano dal nulla.

L’autostrada si snoda
come una lucida biscia,
e la loro testa scuotono,
perplessi o insofferenti,
filari di salici e pioppi.

In tetra e tacita attesa
sono i casolari lontani,
come librati nell’aria,
che elettrica sprigiona
un magnetico potere.

Col nubifragio, i confini
di sconosciute regioni
incautamente ho varcato
e virenti rami spezzati
ora cadono sull’asfalto.

Restano solo squarci
di luce e fari sciabolanti,
che nel buio s’incrociano,
come apparizioni fugaci
di erranti anime inquiete.

Un lampo poi un tuono:
appare il volto accigliato
del nume irato e tempestoso,
con guizzare di muscoli
ed una chioma di caligine.

Odo i cocchi degli dei:
percorrono al galoppo
lunghe strade acciottolate,
in un rombo indefinito
di zoccoli e ruote eterne.

XV

Le mie poesie
sono come figlie
ed io le amo
anche se nascono
sgraziate
o poco intelligenti.

Come care amiche
inaspettate
le loro parole
mi fanno visita
e suggeriscono
sottovoce
i più strani consigli.

Come mosto
lascio che i versi
acquistino
spirito
abbandonandoli
per diverse lune
in botti stagionate.

Le mie poesie
sono come amanti
capricciose
di cui sono geloso
e a pochi
le faccio conoscere
per la paura
che mi tradiscano.

XVI

Col passo esperto
della danzatrice
Ella incede
con cangianti occhi
da gatta.

La femminile
sapienza
è miele trabocchevole
e profuma
di sinuosa sensualità.

Il Suo corpo
di sfinge
affonda gli artigli
di una maliziosa
riservatezza.

In una fanciulla
così amabile
può nascondersi
il venefico fiore
del ciclamino?

La mia Donna
è una bocca
dal sapore maturo
e una mano
che vuol essere stretta.

La mia Signora
è un guerriero
che spesso mi atterra
e che parla
una lingua straniera.

La mia Donna
è una scommessa
che fa vincere
ed una certezza
che può anche tradire.

La mia Signora
è malattia
che consuma
e devo curare
eppure un dono
che non apprezzo.

XVII

Le primule discrete
fanno capolino
come punti esclamativi
fra le oscure pieghe
della mia freddezza.

Una sinfonia struggente
come il preludio
di eventi predestinati
echeggia nel giardino
della mia indifferenza.

Tra gli alberi
io riconosco il soffio
di sospiri mal trattenuti:
venti tiepidi
e attesi da tempo
annunciano verdi germogli.

Con occhi esitanti
non posso che riconoscere
parole splendenti
ed il tepore di sentimenti
che sciolgono
un lunghissimo inverno.

Il prato si adorna
con limpide gocce
di rugiada:
è la stagione delle lacrime
che ritornano
come delicati involucri
di vitalità.

Per lievi tracce
inseguo un’ipotesi nuova:
questa primavera
avrà colori impeccabili
e la sincerità assoluta
già mi spaventa.

Nell’assonanza rischiosa
di elevate emozioni
che assorbe ogni pensiero
scorgo altre stagioni:
in terre offese dal passato
più intensamente
cresceranno fiori d’amore.

Dentro un alveo sassoso
le acque libere
non ammettono dubbi
e dal disgelo dei ghiacci
precipitano a valle
verso una foce
che conclude il mio corso.

XVIII

La triste attesa
aleggia
nella foschia mattutina
sul lungomare.

Nell’angoscia
le palme immobili
attendono
come testimoni muti.

Le sedie sono vuote
nel ristorante
e sul molo deserto
sono gusci
svuotati di senso

Mozziconi spenti
e fogli di giornale
volano via
da tavoli
ingombri di avanzi.

E’ ormai dispersa
l’allegria del vino
e della serata
con i soliti amici.

Nugoli di mosche
danzano
sui frutti guasti
e sul presente.

Vedo sui muri
del mio cuore
graffiti nere
ed imposte sbarrate
al mio pianto.

La presunzione
si sgretola
come l’intonaco
delle vecchie case.

Un cane sonnacchioso
fa la guardia
a logori pensieri.

Nella mia stanza
lascio
cose stantie
buttate per terra
che più non raccolgo.

Una noia opprimente
incombe
e la donna che dorme
sul mio letto
pare una sconosciuta.

Scorgo un rondone
che sfreccia lieve
sulla scogliera
sormontata dai flutti.

Esplode
un garrito nell'anima
ed il coraggio
di volare
senza voltarsi indietro.

Improvvise ascolto
le sirene suadenti
dei traghetti.

Con gesti sapienti
i marinai nel porto
rammendano le reti.

Dall’oceano disteso
emana
un’aria nuova
intrisa di salsedine
e di potere ignoto.

XIX

Nella palude
dormono
salici scarmigliati
e timorosi.

Ammiccano
su crespe d’acqua
baleni lunari.

Uccelli notturni
da rapina
battono le ali
nel macilento
silenzio.

Ruttano rospi
tra tonfi sordi
in stagni melmosi.

Ascolta i fruscii
nella sterpaglia
e scansa
dal viso i tafani.

Fruga cauto
le sponde
degli acquitrini
e stringi il fucile
vicino ai caimani.

Il pericolo
è sempre in agguato
nella vociferante
ed umida notte
dell'apparente realtà.

XX

Lumache
trascinano
il peso
tracciando
di biacca
linee
incerte:
piangente
rassegnazione
di spiriti
ingabbiati.

La ciotola
azzurra
del cielo
è piena
di impulsivi
voli
di stormi
in cerchio:
vitalità
di spiriti
irrequieti.

XXI

Da corona di spine
spesso difesa
sei una stella di sesso
e bambina
che ascolta le favole.

Emozione mia preferita
dell’amore
sei il lato nascosto.

Le tue mani
quando dispero
mi toccano il viso
e volano via
come delicate colombe.

Quando la vita
mi prende a schiaffi
la Donna
ritorna a cantare
l’ideale
con armoniche parole.

XXII

Una ghirlanda di fragranti mughetti
il volto t’incornici in una sacra aureola,
o mia madonna, nell’ora che appari
sul verone trapunto come un ricamo
dal rosso accesso di rose rampicanti.

Una collana graziosa di perle t’adorni,
pure e lucenti come gocce di cascate,
ora che questo tuo volto incantevole
riponi stancamente, con le trecce nere,
sul cavo delle mani pari ad un calice.

Da una malinconica dolcezza, che amo,
sono i tuoi profondi occhi offuscati:
come pozze accolgono lacrime di luna.
Ma quale oceano di purissime armonie,
prigioniera di turrite e spesse mura, aneli?

Mentre sul seno tuo acerbo s’accuccia
il bruno veltro che prediligi carezzare,
mia altera creatura dal nobile cuore,
muti accenti di supplica immagino
in ardenti labbra senza il ristoro di baci.

Anche il falcone tuo, col bendato capo,
soffre la privazione del cielo infinito,
mentre percorri assente i vasti saloni
del tuo castello, o angelo senza fuoco,
sfiorendo al gelo di giorni senza amore.

Ma i denti tuoi delicati di porcellana
potresti schiudere al riso, o madonna,
se d’un giullare le corde della viola
sentissi nelle lunghe notti d’inverno,
mentre invoca le stelle e il tuo nome.

ALBEDO – ATTO TERZO

XXIII

Con passi di danza volteggio,
ubriaco di gioiosa energia,
sulle strade terse e sgargianti
di un arcobaleno risorto.

Nella più innocente estasi,
un nuovo occhio si apre
e nell’erba e nell’acqua
è compenetrato l'essere mio.

Nel puro ritmo del respiro
sono ape nel roseto ronzante
e cieco verme nel faggio.
dal tronco cavo e decomposto

Nelle immacolate nubi
una sacra armonia mi parla
e mi culla la cantilena
di un vasto universo svelato.

Nella terra nera e arata,
ora bagnata da gocce di sole,
con miliardi di facce riluce
il dolce gioco del creato.

XXIV

Coppieri
con ambrate chiome
dalle pendici boscose
del monte Olimpo
versano ancora
da traslucide anfore
di cristallo
nettare solare
ed etereo
come il cielo d’estate
sopra le pianure
della Tessaglia.

Opliti
con elmi di calcare
e scudi di quarzo
sulle alture scoscese
di Maratona
sono archetipi statuari
o simulacri
che si fondono ancora
con le ombre mutevoli
delle pinete
e le rocciose erosioni
scolpite dai venti.

Vestali
con monili di marmo
e vesti vaporose
come nuvole
pregano ancora
sui gradini infranti
del Partenone
come candidi fantasmi
di guardia
nei porticati aulici
e odorosi di mirto
dell’Acropoli.

La voce del padre
degli dei e degli uomini
risuona ancora
contro gli scogli irti
e le coste a picco
delle Cicladi
e lo sguardo di Afrodite
ammaliante
è nel profondo indaco
delle onde
che accarezzano
bianche spiagge nell’Egeo.

Il letale arco e la cetra
del figlio biondo
di Latona
ed il segreto canto
di Artemide
dagli occhi inquietanti
vibrano ancora
nelle selvagge selve
dell’Arcadia
ed accompagnano
fra gli ulivi dell’Attica.
il canto delle cicale

Negli stadi e nelle agorà
silenziose
guidato per mano
dai bambini
di secoli ormai smarriti
un cieco cantore
recita ancora
versi divini
la cui perenne armonia
è presente
lungo le strade alberate
da Tebe a Corinto.

XXV

Se ella appare
sprofondo
fragile al dubbio
nel fulgore
degli occhi suoi.

Essi mi attraggono
vitali
come nel campo
il rosso
di flessuosi papaveri.

Mi rapisce
questo suo sguardo
circondato
da madreperla.

Come il fondo
del cristallino mare
mi dona
il sale della vita.

Squisita maturità
del chicco d’uva
è la sua bocca
che pare
la perfezione
della goccia d’acqua.

Il mio animo
è in mille frazioni
di sapore e colori.

La sua bellezza irreale
è muta vastità
beatificante
di orizzonti
purificati da piogge

Senza soluzione
di continuità
s’apre un getto di luce.

Ardite sensazioni
di amore
come ponti sospesi
sulla morte
erige la sua presenza.

Nel silenzio di gioia
è incastonato
un grumo di eternità

XXVI

Il brontolare dei tuoni
mi schiude le labbra
ad un sorriso insolito.

Adorante mi carezza
sul volto la pioggia.

Lo scroscio incessante
sussurra il mio nome.

Il tamburare attutito
sui tetti mi spinge
al folle congiungimento.

In un languore di sensi
percorro la strada
spinto con forza dal vento.

I rigagnoli invadono
a gara come monelli
il marciapiedi di canti.

Nel gioioso sposalizio
col cielo mi sciolgo.

XXVII

Se il bambino piange impaurito
continua egualmente
il meriggio a scaldare le pietre.

Se il vecchio annega la noia nel vino
continua egualmente
l’eterea farfalla a posarsi su viole.

Se la passione brucia gli amanti
continua egualmente
la montagna a vestirsi di neve.

Se il viandante è derubato nel sonno
continua egualmente
il melograno a donare succhi rubini.

Se il poeta insegue gloria ed onori
continua egualmente
la sorgente a cantare incessante.

XXVIII

Con ogni radice avvizzita
la mia vita rabbrividisce
sotto un fine velo di brina.

Il sole diafano è immerso
in banchi di nebbie spettrali
e da tempo è perso alla vista.

Acqua e nevischio cadono
su di un tramonto di cenere
che il mio orizzonte restringe.

Dai fossi scuri dei campi
si sprigiona una foschia
che col silenzio assopisce.

Fra le mie coltri alla sera
avverto spini di rose sfiorite
e il fetore di piante marcite.

Una tristezza invernale
è nel dormiveglia che spegne
pensieri gracili e stanchi.

La terra indurita è sorda
e in ogni prato piangono
rari germogli in agonia.

Fermentano erbe piegate
dai piovaschi autunnali
e i fiori di altre primavere.

Mentre tintinnante soffia
sui vetri la tramontana
ecco s’oscura l’anima mia.

Deserti viali in discesa
lastricati di tenebre e caos
nel subconscio conducono.

Cipressi funerei e severi
non dimostrano un fremito
di vita o incoraggiamento.

In profondità cammino
tra i chiusi sepolcri del cuore
e la coscienza smarrisco.

Oltre la soglia del sogno
implode l’apparente realtà
e un mare in tempesta affronto.

Mi trovo sul cigolante ponte
di un vascello sospinto
dai venti violenti dei sensi.

Corpi ed armi insanguinate
di conquistatori crudeli
giacciono senza più scopo.

Ma nella stiva sono riposti
tesori di gemme e di oro
come sfavillanti desideri.

Tutto il mio cielo è infuocato
ed acri volute di fumo
scacciano angeli e demoni.

Tracciando scie luminose
uccelli con ali in fiamme
cadono come fedi incenerite.

Piangendo per il terrore
trapasso un muro di carne
e di cupe domande irrisolte.

Ricordi come note vibranti
ora struggenti affluiscono
da trombe e violini lontani.

Torno a danzare incantato
nella vasta sala affollata
dalle illusioni più tenere.

Da pavimenti d’inchiostro
risorgono ballerine sottili
con occhi celati dall’ombra.

Capelli di seta incorniciano
bocche e seni invitanti
che stordiscono ed abbagliano.

Ma disgusto e repressi dolori
la visione ingannevole
spezzano come fragile vetro.

Cessano balli privi di gioia
ed un teschio orrido appare
dal viso invitante che bacio.

Da un sarcofago aperto
escono a frotte i pipistrelli
che col mio sangue nutrivo.

Con lamentevoli sonorità
le ali nere fendono irate
l’aria ammorbata da tombe.

S’addormentano a grappoli
come velati e venefici frutti
e nell’inconscio scompaiono.

Mi allontano con raccapriccio
e in un grembo materno
come un bimbo cerco conforto.

Supino sull’ultima spiaggia
ora ascolto la voce profonda
di un calmo mare infinito.

Il corpo abbandonato è nudo
mentre gioca abbagliante
un tiepido sole sulla mia pelle.

La risacca con l’alito salso
mi sfiora e mi persuade
ad alzarmi con nuovo vigore.

Riscopro le orme stampate
sulla calda e nitida sabbia
da chi mi precede nel viaggio.

Tra le conchiglie e i relitti
d’immagini erose dal tempo
inseguo veloce i delfini.

Corro col cuore ridente
ma scordo il dischiuso pozzo
del remoto passato rimosso.

Sprofondo in marci rifiuti
e nauseanti fanghiglie
ferme da secoli e secoli.

Nei meandri e nelle fogne
della mia psiche impazzita
devo nuotare a ritroso.

Con unghie cieche le talpe
senza tregua scavano
in ogni fibra e nel cervello.

Ingordi ratti e tarantole
nelle caverne del cuore
avvelenano ogni speranza.

Con le braccia abbandonate
sono morente ed appeso
all’albero spoglio dei disperati.

Ma un astrale e dolce sorriso
e mani bianche come la neve
mi soccorrono con grazia.

Nell’informe trama notturna
una nuova coscienza
appare come stella polare.

Magia s’insinua nel corpo
suscitando senza paura
un turbinoso vento d’amore.

Un fendente raggio di sole
allontana chi sa dove nel tempo
allucinazioni ed inganni.

Tra il verde fogliame odoroso
di una foresta sognata
ora riposo come un neonato.

Ascolto soltanto un torrente
che canta celesti parole
dal sacro sapore di antico.

Fra le mie coltri al mattino
avverto gigli e fiori di pesco
dai petali chiari e trasparenti.

XXIX

A centinaia
sulle guglie
e i comignoli
i simboli
di un festoso
mattino
fendono spazi.

Tra la terra
e il cielo
affusolati
acrobati
trame d’amore
scrivono.

La veranda
sfiorano
le rondini
gridando
la fertilità
della natura.

XXX

Lungo l’arena di ghiaia
deserta di voci
si susseguono
con riflessi tetri
inconcludenti ondate

Con sfinimento
la notte che ho trascorso
si addormenta
in un mare profondo
che attende l’alba.

La mia ragione
alla fine si è dispersa
con ogni altro affanno
in una marina
di piombo e acciaio.

Come un ricordo arcano
affiora dal cuore
insonne e ammutolito
un affascinante stridio
di candidi gabbiani.

D’incanto
l’orizzonte trascolora
e prendo il volo
in un lembo di cielo
che si tinge del chiarore
di un opale infuocato.

XXXI

Dio della tempesta
illuminami
con bagliore di fulmini
e bagnami
con turbinio di nembi.

Dio della guerra
scuotimi
con impeto di arieti
e trafiggimi
con fischi di frecce.

Dio del sole e della luna
risvegliami
coi canti del gallo
e incantami
con lucentezze di stelle.

Dio del sangue effuso
scioglimi
dal vorticare dei sensi
e fissami
nel cristallo della poesia.

Da troppo tempo
il cuore
è fiume senz’acqua
e l’animo
penna senza inchiostro.

XXXII

Se l’ululare della burrasca
trattiene nel porto le vele
spiegate a impulsi di verità,
esiste il tempio che possa
raccogliere fra le navate
i pellegrini, che disperano
con le scarpe già sfondate,
e dolenti per le tormentose
voci ed ombre del dubbio.

Per evitare sferzanti diluvi,
a capo scoperto i portali
scolpiti da un’arte eccelsa
essi varcano, senza fiatare,
e liquide note di un organo,
come preghiere e speranze,
rimbalzano fra le colonne,
dove lo spirito è raccolto
in meditazioni senza tempo.

Da sapienti e sottili vetrate
filtrano i colori dell’iride,
con cascate di vita radiante,
per illuminare i cercatori
di terre sante immaginate,
mentre tra cielo e orizzonte
i cirri candidi si muovono,
in un muto ed etereo corteo
di maestose carrozze, recanti
elevate e purificate energie.

XXXIII

Severa guida
un astro
al calor bianco
mi sovrasta.

Ha aperto
occhi polverosi
alla limpidezza.

Abituato
a scavare tra pietre
e radici di alberi
le vette
danno vertigini.

In uno svenimento
di luminosità
mi svela
il senso del divino.

Sono sedotto
da estreme ascensioni
ed alba e tramonto
coincidono.

RUBEDO – ATTO QUARTO

XXXIV

Più non fiatare
e seguimi
nella stratosfera
rarefatta
dei santi veggenti
privi di volto.

Quassù il distacco
è assoluto
e nell’ebbrezza
dell’eros
sovente sfiori
l’estasi
ed il precipizio.

Qui il disincanto
e la morte
che t’inseguono
sono zoppi
ed arrancano
affannati
con le stampelle.

Non temere:
sarai una folata
di vento
e potrai lasciare
alla terra
i tuoi atomi
di greve umanità.

XXXV

In questo sprazzo di luce piena
coglierò l’occasione irripetibile
di cavare alla terra ogni sapere.

Prima che il ritorno all’indistinto
abbiano fermato il miracolo avrò
il corpo fiaccato dal camminare.

Poi seguirò stormi che emigrano
vocianti le meraviglie di regioni
oltre l’oceano vergini e ignote.

XXXVI

Il tempo ha le gambe muscolose
e corre sulla pista della vita.
E’ prova affannosa e derisoria
inseguire un atleta instancabile:
mai taglierò col petto anelante
il traguardo della breve gara.

Lontano dalla follia degli stadi
calcati da concorrenti caparbi
eviterò la sconfitta ingloriosa:
perché il fato ilare e insondabile
offre una coppa colma di pianto.

Prima che il gioco si concluda
bruscamente come è cominciato
con la saggezza di chi è fermo
otterrò una vittoria scolpita
in un marmo che non si frantuma.

XXXVII

Saggio ancora fanciullo,
con temerario rispetto
della montagna affronto
guglie di cattedrale,
scaglie di drago dormiente,
orridi imbuti di morte,
in gola il mio cuore
e di chi precipita l’urlo.

Accorto sperimento
corde d’acciaio e silenzio,
pareti incombenti,
spicchi di bianco nel cielo,
di dolomia troni solenni,
scale tese nell’infinito,
cime di ebbrezza esplosiva
e l’ora purpurea che segue
il sole accecante sui ghiacci.

XXXVIII

Gocce di porpora Lo destano,
versate su Roma al tramonto:
impressi su lastre di pietra,
i lineamenti del Suo volto,
nei secoli tragico e austero,
col liquido biondo del cielo
ora si bagnano con dolcezza.

Ignaro, sfiorando il Pantheon,
il sole suscita il miracolo
e simulacri marmorei ridesta:
formate dal chiaro travertino
degli altari e delle basiliche,
le Sue membra si colorano
di una fiammata di sacralità.

Sopravviene la magica ora,
in cui le splendide fontane
cantano in piazze rianimate
e zampillano con forza vitale,
carezzate da raggi d’amore:
emergono le voci del Dio
dalla purezza di antiche arti.

Atleti e condottieri di bronzo,
con muscolature imprigionate,
vibrano nei corpi bruniti
e nell’armonia delle forme:
in un sorriso di speranza
gelide labbra dischiudono,
perché ora ricordano il Nume.

Il sangue circolante nell’urbe
ravviva ogni fregio consunto,
nel Colosseo nudo e nei Fori,
irti di colonne in frammenti:
archetipi si manifestano intatti
ed esplode nel cuore pulsante
una potenza mai soggiogata.

Al Tevere, coronato da ponti,
l’estremo arrossare del cielo
reca uno sfavillare di brace:
ma implacabile cala la sera
ed il fiume diventa funereo
e incanala acque, ove scolora
del dio Quirino il risveglio.

Nell’incenso di chiese silenti,
i lumi sparuti e tremolanti
a stento rischiarano navate
e santi nascosti nel buio:
s’oscurano mosaici e dipinti
e il Suo animo invadono
incoscienza e disperazione.

Quasi una dama ingioiellata,
Roma già formicola di fari:
sul Campidoglio illuminato,
come una camera ardente,
le statue tacciono sdegnate
e ricordano il sentiero antico
di una immortale aurora.

Nel contempo arde perenne,
nel sacrario del milite ignoto,
un fuoco arcano e negletto,
sull’attenti da virili vestali
di giorno e di notte vegliato,
come un ermetico simbolo
per i saggi che vedono oltre.

XXXIX

Se il dragone
dalle quattro teste
attorcigliato al cuore
saprai sconfiggere
sarai benedetto
come santo guerriero

Se la vita
vorrà concederti
il suo acre grembo
ed il suo seme
amerai
come toro fecondo.

Se il sapere
vorrà adornarti
con lo scettro e la corona
delle cause più celate
agirai
come leone indomito.

Se la morte
vorrà prestarti
le sue ali immense
e la sua vista
risorgerai
come aquila solitaria.

XL

Chi mi apre come un’arancia
odia il mio sapore troppo aspro:
come bibite, si richiede ai poeti
frizzanti e zuccherose emozioni.

Dagli artisti tutti comprano vento,
che dilegui la noia quotidiana:
ma io non sono il cloroformio
che addormenta il solito inferno.

Come un giocoliere, non alterno
il pessimismo al facile ottimismo:
sulla via levigata del conformismo
sono spigolosa pietra d’inciampo.

In un ripugnante mercanteggiare
di servi e bottegai è appagante,
ben prima dell’aurora, accingersi
a trasvolare un’intera esistenza,
in cerca di una fine più sensata.

XLI

Al filo invisibile
dell’attenzione
appendi
diaspri e malachiti
strappati
ai teneri prati.

Al filo invisibile
della percezione
appendi
ambra e rubini
colti
da pesche mature.

Al filo invisibile
della visione
appendi
ametiste e turchesi
scavati
in tersi orizzonti.

Come un diadema
stupefacente
sarà l’aura
di perfezione
che ti circonda.

XLII

Ammiro la zingara girovaga
nelle strade di cento nazioni,
coi denti lucenti come coltelli
e ricchi di sorriso e di magia.

Invidio la zingara indovina,
con le carte e le gonne fiorite
e trasportata da fieri cavalli,
allevati nelle pianure ventose.

Amo la zingara senza confini,
che ruba ed uccide per amore
e balla e canta avanti il fuoco,
con bracciali d’oro tintinnanti.

Seguo la zingara dai piedi nudi,
con occhi neri come carbone,
ma tristi quando è mendicante
il soldo che paga la libertà.

E’ in me la zingara incantatrice,
che nasce e muore sulla ruota
e non sa reprimere nel cuore
un istinto atavico di viaggiare.

XLIII

Sopra questa pietra
potranno costruire
molte generazioni
di architetti
i campanili svettanti
di nuove chiese.

Contro questa pietra
potranno morire
sconfitti e dissanguati
soldati e generali
di feroci guerre.

Intorno a questa pietra
potranno volare
le astronavi
di mondi ignoti.

Da questa pietra
potranno levarsi
le malinconie dei poeti
e i ragionamenti
di filosofie astratte.

In questa pietra
potranno scomparire
tutte le stelle
del firmamento.

Con questa pietra
tutto sarebbe immutabile.

LXIV

Saggio ancora fanciullo,
con temerario rispetto
affronto della montagna
guglie di cattedrale,
scaglie di drago dormiente,
orridi imbuti di morte,
scale tese nell'infinito
e di chi precipita l’urlo.

Accorto sperimento
corde d’acciaio e silenzio,
pareti incombenti,
spicchi di bianco nel cielo,
di dolomia troni solenni,
cime di ebbrezza
e l’ora purpurea che segue
il sole accecante sui ghiacci.

XLV

Quando fu lo splendore ardente dell’astro segreto
e parte delle voci inconfondibili dell’Assoluto
volse le spalle a cieli sereni e a stelle a noi vicine.

Dopo un lungo viaggio di silenzio e introspezione
una dura sofferenza aveva scavato il suo cuore
dove scorreva un magma fecondo e distruttore.

Dal suo tempio di nubi e scintillanti ghiacciai
col sorriso sfrontato del fanciullo discese fra noi
come chi porta la fiaccola della conoscenza sacra.

Il suo passo irraggiungibile sfiorava il terreno
e la sua voce era un dolce richiamo sovrumano
ed un ponte esile e ardito sull’oscena banalità.

Ma i suoi occhi di celeste profondo atterrirono
e accusandolo d’aver profanato grotteschi idoli
gli strapparono vesti che erano ali di un cigno
e ignudo come il vero per altri mondi scomparve.

GIORGIO SANGIORGIO