Centro Studi Ermetici Alchemici

IL GATTO NERO E IL GATTO ROSSO DI CASTANEDA

“Ricordate la storia che una volta mi avete raccontato, della vostra amica e dei suoi gatti?” chiese come per caso Don Juan.
Guardò il cielo e si appoggiò allo schienale della panchina, allungando le gambe. Si mise le mani dietro la testa e stirò i muscoli di tutto il corpo. Come succedeva sempre, le sue ossa scricchiolarono rumorosamente.
Si riferiva alla storia che gli avevo raccontato un giorno: di una mia amica che aveva trovato due gattini mezzi morti nell'essiccatore di una lavanderia. Li aveva curati, e tra l'ottimo cibo e tutte le sue attenzioni erano diventati due enormi gatti, uno nero e uno rossiccio.
Due anni dopo la mia amica vendette la casa. Non potendo condurre i gatti con sé e non essendo riuscita a trovargli altri padroni, si trovò costretta a portarli da un veterinario per farli uccidere.
L'aiutai a prenderli. I gatti non erano mai stati in automobile: lei cercava di calmarli. La graffiarono e la morsero, specialmente il gatto rossiccio che si chiamava Max. Quando finalmente arrivammo dal veterinario, la mia amica prese per primo il gatto nero; tenendolo in braccio, e senza dire una parola, uscì dall'automobile. Il gatto giocava con lei: la toccò delicatamente con la zampa, quando lei aprì la porta a vetri dell'ambulatorio.
Guardai Max; era accovacciato sul sedile posteriore. Il movimento della mia testa dovette spaventarlo, perché andò a cacciarsi sotto il sedile del guidatore. Inclinai il sedile all'indietro. Non volevo prendermi un graffio o un morso infilando la mano là sotto. Il gatto era accucciato dentro una cavità sul fondo dell'automobile. Sembrava agitatissimo, col respiro affrettato. Mi guardava; i nostri occhi s'incontrarono e si impadronì di me una sensazione opprimente. Qualcosa afferrò il mio corpo: una forma di apprensione, di disperazione, o forse d'imbarazzo per dover svolgere quella parte.
Sentii il bisogno di spiegare a Max che la decisione era della mia amica, e io stavo soltanto aiutandola. Il gatto continuò a fissarmi come se capisse le mie parole.
Guardai se la mia amica stava arrivando. La vidi attraverso la porta a vetri. Parlava con l'uomo dell'accettazione. Provai una strana scossa e automaticamente aprii lo sportello.
“Corri, Max, corri!” dissi al gatto.
L'animale saltò fuori dall'automobile, si lanciò attraverso la strada con il corpo raso terra, come un vero felino. Il lato opposto della strada era vuoto; non c'erano automobili parcheggiate, e potei vedere Max che correva giù per la via, lungo il rigagnolo. Raggiunse l'angolo di un grande viale, poi attraverso un tombino aperto si infilò nelle fogne.
La mia amica tornò. Le dissi che Max era scappato. Lei entrò in macchina e partimmo senza dire una parola.
Nei mesi che seguirono, quell'incidente divenne per me un simbolo. Mi immaginavo o forse avevo visto davvero un guizzo fatidico negli occhi di Max quando mi aveva guardato prima di saltare fuori dall'automobile. E credevo che per un attimo quell'animale vezzeggiato, castrato, troppo grasso, inutile, fosse divenuto un vero gatto.
Dissi a Don Juan d'essere convinto che quando Max era corso attraverso la strada e si era infilato nelle fogne, il suo “spirito gattesco” fosse senza macchia, e che forse mai nella sua vita la sua “gattità” fosse stata così evidente. L'impressione lasciata da quell'episodio era per me indimenticabile.
Raccontai la storia a tutti i miei amici; dopo averla narrata e rinarrata, la mia identificazione con il gatto divenne quasi divertente.
Pensavo di essere io stesso come Max, troppo compiaciuto, addomesticato in mille modi, e non potevo far a meno di credere che ci fosse sempre la possibilità di un momento in cui lo spirito dell'uomo si sarebbe impadronito di tutto il mio essere, così come la “gattità” s'era impadronita del corpo tronfio e inutile di Max.
A Don Juan era piaciuta la storia: aveva anche fatto qualche commento casuale. Aveva detto che non era troppo difficile far affluire e agire lo spirito dell'uomo; sopportarlo, però, era cosa possibile solo a un iniziato.
“Cosa c'entra la storia dei gatti?” chiesi.
“Mi avevate detto che credevate di poter cogliere anche voi la vostra occasione, come Max” rispose Don Juan.
“Lo credo, appunto”.
“Quanto ho cercato di dirvi è che voi, se ricercate l'assoluto, non potete veramente crederlo e lasciare che le cose vadano avanti, così come sono. A proposito di Max, dover credere significa che accettate il fatto che la sua fuga possa essere stata un'iniziativa inutile. Può essere precipitato nelle fogne e morto sull'istante. Può essere annegato o morto di fame; può essere stato divorato dai topi. Un iniziato considera tutte queste possibilità e poi sceglie di credere a seconda delle sue più intime predilezioni. Voi dovete credere che Max non solo è scappato, ma ha sopportato il suo potere. Voi dovete crederlo. Se non lo credete, non possedete nulla.”
La distinzione tra credere e dover credere divenne chiarissima. Pensai che veramente avevo scelto di credere che Max fosse sapravvissuto, pur sapendo che era handicappato da una vita facile e viziata.
“Credere è una cosa facile” aggiunse Don Juan. “Dover credere è un po' diverso. In questo caso, per esempio, il potere dello spirito vi ha dato una magnifica lezione, ma avete scelto di usarne solo una parte. Però, se dovete credere, bisogna che usiate tutto quell'episodio.”
“Capisco cosa volete dire” risposi.
La mia mente si trovava in uno stato di chiarezza e pensavo di afferrare i suoi concetti senza il minimo sforzo.
“Temo che continuate a non capire” disse don Juan, quasi in un sussurro.
Mi fissò. Ressi il suo sguardo per un momento.
“E l'altro gatto?” chiese.
“Eh? L'altro gatto?” ripetei involontariamente.
Me n'ero dimenticato. Il mio simbolo ruotava intorno a Max. Per me l'altro gatto non aveva importanza.
“Però c'è!” esclamò Don Juan, come se io avessi espresso quel pensiero. “Dover credere vuol dire che dovete considerare anche l'altro gatto. Quello che giocava e leccava le mani che lo portavano a morire. Quello era il gatto che andò alla sua morte fiducioso, soddisfatto del suo modo di giudicare, da gatto. Voi pensate di essere come Max, quindi avete dimenticato l'altro gatto. Non ne sapete neppure il nome. Dover credere vuol dire che dovete considerare ogni cosa, e prima di decidere che siete come Max dovete considerare che potete essere come l'altro gatto; invece che correre per salvarsi la vita e cogliere anche voi la vostra occasione, può darsi che andiate tutto felice alla morte, soddisfatto del vostro modo di giudicare”.
C'era un'inquietante tristezza nelle sue parole, o forse la tristezza era la mia. Tacemmo a lungo. Non mi aveva mai attraversato la mente l'idea che io potessi essere come l'altro gatto. Era un pensiero estremamente angoscioso.

Da Carlos Castaneda – L'Isola del Tonal