L’espressione “Guardiano della Soglia” viene, in ambito esoterico, dall’occultismo dell’800, per l’uso fattone da Bulwer Lytton nel romanzo Zanoni (vedi cap. VIII), ma come figurazione dell’immaginario iniziatico risale all’egizio Bes, considerato “Il Guardiano della Porta”, patrono delle iniziazioni misteriche (collegandosi il suo nome con “bes” – iniziare), mentre nella escatologia si ritrova nella tomba della regina Nefertari (1250 a. C ) - consorte del faraone Ramesse della XIX dinastia – in due guardiani armati di coltelli, che presidiano la prova del passaggio nell’Al di Là, regno di Osiride.
Per non dire della Maitri Upanisad, ove si afferma che l’ingresso nella sala di Brahama (essenza di vita) è fattibile uccidendo il Guardiano della Porta.
In altro ambiente soteriologico la figura è in una tavoletta orfica (frammento 32) del III – IV secolo sotto forma personificata a significare la difficoltà lungo l’itinerario iniziatico di accesso, di transito da un livello ad un altro, da una sfera inferiore ad una sfera superiore “celeste”, celeste nel senso traslato di “celata” e in quello letterale di splendente.
Equivalente ne è la metafora dei “doganieri celesti” con riferimento alla Dogane Celesti del Mandeismo e quella dei “tre guardiani” della soglia del tempio di Gerusalemme (vedi Geremia I.II).
Ne fa menzione anche Virgilio, poeticamente, (vedi Eneide VI 574) “vedi qual Guardino si vede all’ingresso? Qual spettro veglia sulla soglia?”
Comunque si denomini questa figura nell’immaginario ermetico, è in contrapposizione a quella del Viandante e del Pellegrino, indicativa dell’itinerante intento alla “cerca”…
Siamo tutti in viaggio, in un viaggio di cui non conosciamo la stazione di partenza e meno ancora quella di arrivo, di cui non conosciamo la durata e meno ancora il senso; siamo tutti viaggiatori alla cerca di quel luogo che, nell’ipotesi alchimica, siamo noi stessi.
Ma senza dubbio, nell’ampio spettro delle diverse poetiche, il personaggio del Guardiano della Soglia è proposto in modo ottimale nel Processo (cap. IX “nel Duomo”) di Kafka, in un passo che merita lettura e riflessione.
“… sulla porta della legge sta un guardiano. Dinanzi a questo guardiano arriva un uomo di campagna e lo prega di farlo entrare. Ma il guardiano gli dice che per ora non può lasciarlo passare. L’uomo riflette e poi chiede se potrà entrare più tardi. “Può darsi, ma ora no”, dice il guardiano. E siccome la porta sta sempre aperta e il guardiano si è tirato da parte, l’uomo di nascosto si affaccia alla porta per vedere nell’interno. Quando il guardiano se ne accorge si mette a ridere e dice: “Se hai voglia, prova pure ad entrare, ad onta del mio divieto. Ma ricordati di questo: io sono potente, eppure non sono che l’ultimo dei guardiani. E davanti ad ogni porta vi sono altri guardiani, uno più potente dell’altro. Già quando si arriva davanti al terzo, nemmeno io sono capace di sostenerne la vista”.
L’uomo di campagna non si era aspettato questa difficoltà, la legge deve essere accessibile a tutti e sempre, pensa, ma ora, guardando più attentamente il guardiano nella sua pelliccia, con quel naso gran naso a punta e la lunga barba nera alla tartara, comprende che è preferibile aspettare finché non gli sia concesso il permesso di entrare.
Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere accanto alla porta. E là resta seduto giorni e anni, facendo molti tentativi per entrare e stancando il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano parla spesso con lui, gli domanda della sua patria e di tante altre cose, ma sono domande senza interesse, come le fanno i gran signori e alla fine torna sempre a ripetergli che non lo può fare entrare. L’uomo, che per il suo viaggio si è provvisto di molte cose, dà fondo a tutto quello che ha, senza badare al valore, sperando di corrompere il guardiano. E questi accetta ogni cosa, ma dice: “Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualche cosa”. Durante molti anni l’uomo osserva il guardiano ininterrottamente, e dimentica gli altri guardiani e solo questo primo gli sembra l’unico ostacolo che gli impedisce l’ingresso nella legge.
Nei primi anni maledice la sua sfortuna, ma via via che invecchia si limita a borbottare, tra sé. Diventa come un bambino, e siccome nello studio che per lunghi anni ha fatto del guardiano ha imparato a conoscere perfino le pulci del suo bavero di pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo a commuovere il guardiano. Alla fine gli occhi gli s’indeboliscono e non sa più se fa davvero buio intorno a lui e se sono i suoi occhi che l’ingannano.
E ora soltanto distingue nel buio una luce che arde ininterrotta alla porta del tribunale. Ma ormai non gli resta più molto da vivere.
Prima della sua morte le esperienze fatte in tutto quel tempo si fondono nel suo capo in una sola domanda, che sinora non aveva mai rivolto al guardiano, e siccome non è più capace di rizzare il corpo irrigidito fa un cenno al guardiano di abbassarsi. Il guardiano si deve piegare molto in basso, perché la differenza di statura fra loro è molto aumentata e non certo a favore dell’uomo di campagna: “Che cosa vuoi sapere ancora, tu sei insaziabile!” chiede il guardiano. “Tutti tendono a conoscere la legge”, dice l’uomo di campagna, ”come è allora che in tutti questi anni nessuno all’infuori di me ha mai chiesto di entrare”? Il guardiano capisce che il vecchio è arrivato alla fine e per farsi sentire gli grida:
“Qui nessuno poteva ottenere di entrare poiché questa entrata è riservata solo a te. Adesso vado e la chiudo”…
Tenuto conto che in alchimia l’Opera è anche detta “agricoltura celeste” e che gli alchimisti sono anche detti “agricoltori”, ben si comprende che “l’uomo di campagna” kafkiano altro non è se non un alchimista mancato (non un alchimista fallito), ossia un Uomo di Conoscenza mancato come tanti, d’altronde, per il fatto di neppure tentare di affrontare il problema esistenziale – a parte il caso del credente – anzi per il fatto di rimuoverlo … come i più.
GIAMMARIA L’alchimia questa sconosciuta” Riccardo Editore