CHI HA ORECCHI PER INTENDERE...
Passeggiavano, nel chiostro del convento, Federico II di Svevia e Slavone di Baviera. Strani amici essi erano invero: l’uno potente monarca dai domini vasti e ricchi; l’altro, oscuro monaco cistercense, privo di prestigio e di titoli, di munifici protettori e di parentele di pecunia.
Eppure quando essi erano immersi nei loro dialoghi tutto il mondo attorno a loro pareva perdere consistenza, o piuttosto attenuarsi in una sospensione vaporosa, una sorta di nebulosa opalescenza. Niente più contava, se non le parole e le idee che fluivano liberamente e senza costrizioni fra loro, dando vita a pensieri che a malapena si potevano definire di questo mondo.
Rinchiusi in quei due corpi così dissimili vibravano due essenze gemelle, identiche nella loro diversità.
Non dimenticava Federico che Slavone gli aveva salvata la vita quel giorno della parata, fra stendardi agitati dal vento e grida di popolo, mentre le damigelle stringendo il fazzoletto alla bocca comprimevano a forza le labbra da cui forse avrebbe voluto sfuggire un languido bacio diretto al bell’imperatore, e scudieri e vassalli annunciavano le lodi del loro signore, quando una freccia infida scoccata da un arco traditore si stava facendo strada verso il suo cuore.
Non si sa come, non è mai stato spiegato e forse mai lo sarà, Slavone la vide arrivare e d’impeto andò a trascinare giù da cavallo l’imperatore, rimanendo lui stesso altrettanto sbalordito dal suo gesto quanto tutti gli astanti. Ma fu subito chiaro a tutti che l’impudenza del monaco aveva salvato l’imperatore quando la freccia andò a colpire al cuore il paggio di Federico, che lo seguiva immediatamente da dietro, dandogli morte istantanea.
“ E così, Slavone, tu asserisci di poter udire la musica delle sfere, di cui l’ineguagliato Pitagora afferrò il senso proiettato sul davanzale del mondo, aperto alla vista dell’anima, senza che nessuno riesca ad oltraggiare a sufficienza il buon senso per percepirla? ”
“ Sì, Maestà, io l’ho udita. E’ nelle notti più solitarie, allorché il carico di affanni e di idee della giornata cessa di affollarsi alle porte della mente, che la spossatezza del corpo lascia spazio alla dolcezza misteriosa e struggente che si affaccia dalle insondate profondità dell’essere; allora la sperduta virtù dell’amore celeste tocca con corde sottili e delicate la mia anima...e io resto là, solo fuori dalla porta del mondo, in bilico su di universi sconosciuti; e ascolto...”
“ E dunque sarebbe la stessa traccia luminosa che lascia una scia nel tuo cuore, quella che il giorno della sfilata ti ha portato, come dicesti, a percepire l’arrivo di quella freccia? ”
“ Ahimè, Maestà! Nel grande Libro dei Proverbi di Salomone è scritto che è impossibile discernere la traccia che l’uomo lascia nella esistenza...quanto più raddrizzare i tortuosi percorsi del cosmo, quand’essi si intrecciano con l’umile fango della natura umana! Accettare la meraviglia senza tentare di capirla è il nostro atto d’amore più grande per un Creatore le cui vie sono più alte delle nostre quanto i cieli lo sono rispetto alla terra ”
“Slavone...la conoscenza ci viene data per gettare un ponte fra il non detto e l’indicibile...ricorda che l’uomo è fatto ad immagine di Dio, ed in lui Egli si rispecchia. Se il nostro amore consiste nell’accettare con cuore grato le sublimi manifestazioni della Sua Saggezza, il Suo consiste nell’accompagnare l’uomo verso la Verità... ”
“ Vero, Maestà; anche se vi sono conoscenze che, forse per il nostro stesso bene, è meglio lasciare là dove sono....del resto tutta l’Eternità ci è data a questo scopo. Però posso darvi ragione per ciò che concerne il Dio che è fatto ad immagine dell’uomo: riconciliare i segreti del cosmo con le istanze sgorgate dal cuore allora non è così difficile, perché le due cose si incontrano a metà strada fra la terra e il cielo, e il loro senso familiare riecheggia nella mente come da epoche lontanissime ma sempre presenti con noi. ”
“ Certa e veritiera è la tua parola, Slavone: sì, questo è lo sposalizio dei cieli, la congiunzione degli opposti annunciata dai filosofi...il serpente che si morde la coda. E' il miracolo delle polarità che si integrano, dei due che sono uno; della dolcezza di un cuore di donna che acquieta l’impeto dell’uomo...e infine il buio caldo del suo corpo che alloggia, per una notte o una vita; tutte le perplessità, le insicurezze, i timori di lui, che da forestiero e pellegrino a sé stesso si diventa conosciuto tramite l’amore di lei. E così dalle tenebre sgorga la luce. Ah, quanti misteri, quanti arcani, Slavone...sembra che il tempo ci manchi per penetrare i recessi della sapienza...abbiamo bisogno di coraggio, perché i numi tutelari della stoltezza sono sempre all’opera per tentare di distogliere il cercatore dal suo Graal personale ”
“Coraggio, forse, più che altro di essere se stessi...in un mondo intabarrato nell’ignoranza, che tende agguati a se stesso non riconoscendosi nell’ombra che gli si stende davanti, è del massimo valore il detto delfico: uomo, conosci te stesso... ”
“ ...e possiederai le chiavi dell’Universo ”
“ ...che si stende immenso dentro di noi ”
“ Dunque guardare?...Osservare? ”
“ Vedere, Sire ”
Un nuovo sguardo animava gli occhi e il volto di Federico mentre lasciava l’abbazia.
Ed egli vedeva che il Sole era luminoso, che l’erba era verde, che il cielo era blu.
E che la musica delle sfere, se pur era quella, gli lasciava una traccia d’amore nel cuore, e un canto lieve sulle labbra.
UN GIORNO QUALSIASI NELLA VITA DI UNA PERSONA QUALSIASI IN UN MONDO QUALSIASI
Lo strano vagabondo fece il suo ingresso nella piazza della città, vastissima e spaziosa, ma certo non come quel mondo sconfinato da cui sembrava provenire lui, che recava su di sé le impronte dell’infinito. Il suo abbigliamento, tanto per cominciare: andava in giro vestito come un attore shakspeariano del ‘500, sebbene non per questo il suo abito sembrasse superato o fuori luogo, poiché, stranamente, lo si percepiva totalmente connaturato alla sua persona, e non era per quello che dava nell’occhio, quanto per l’aura di incomprensibilità che lo circondava.
E poi la sua espressione: se lo si guardava da un lato del volto si vedeva la smorfia grottesca di un pazzoide, l’altra rivelava invece la serena e composta saggezza di un vecchio che aveva giocato bene le sue carte nella vita, e adesso aveva forse qualche segreto da svelare anche a noi poveri figli del razionale. Sì, certo: di sicuro aveva mangiato pane e lacrime, ma forse aveva anche posato l’occhio sulle mura dorate di Samarcanda; chissà aveva assaggiato la frusta dei padroni terrieri e il morso dei cani randagi ma anche la carezza di qualche bella smorfiosa di passaggio; forse si era inerpicato sugli alberi di un frutteto non suo per sgraffignare la colazione, ma sicuramente qualche signorotto di campagna lo aveva avuto a pranzo fra i suoi illustri convitati attorno ad una tavola riccamente imbandita su di una tovaglia di pizzo.
Che dire, dunque: era un relitto nel mare della vita o un essere speciale inviato dal cielo con una missione ancora più speciale?
Mi avvicinai a lui quasi di soppiatto, con un atteggiamento fra l’intimidito e il critico nei miei stessi confronti per aver fatto quel passo senza prima meditarlo, ma seguendo un impulso assurdo, di quelli che ti travolgono come il profumo del gelsomino nelle sere d’estate. Capii allora in un baleno che non ero poi così totalmente padrone di me stesso come mi era sempre piaciuto pensare, ma che c’erano aree, zone d’ombra della mia vita su cui non avevo, almeno per il momento, alcun potere, che occhieggiavano da una via parallela a quella dove abitava la mia mente conscia; e a volte prendevano semplicemente il comando.
Ma che cercavo, che speravo da quell’essere a metà fra il grottesco e il sublime e che era un po’ di tutti e due? Lo raggiunsi mentre, seduto sul bordo della fontana, si divertiva a lanciarci dentro dei sassolini, cercando di centrare i pesci rossi che la abitavano. Pure dispettoso! Ma c’era da immaginarlo, dato il tipo.
“ Che vuoi? ” Mi chiese senza nemmeno voltarsi.
“ Mi chiedevo se non avesse bisogno di aiuto ” risposi con la prima cosa che mi venne alla mente senza nemmeno rendermi conto di quanto stupide o presuntuose suonassero queste parole, messe insieme dal lato più banale di un benpensante, conformista, qualunquista.
“ E chi non ne ha bisogno? ” Rispose senza per questo tralasciare di applicarsi all’interessante operazione che richiedeva tutta la sua concentrazione.
1 a 0 per lui. Quante ne avrei prese prima di gettare la spugna? Ma riflettei su quella risposta: aveva più bisogno di aiuto lui, libero di vagare per i campi fioriti della primavera e di gustare il calore di un fienile d’inverno, o io che alle 8.15 infallibilmente dovevo presentarmi al mio lavoro timbrando un cartellino da una macchinetta sgarbata che con cipiglio severo (pareva ) dava il via alla mia giornata lavorativa con un rumoroso e poco romantico “ Ding ”? Io, che in quel momento mi resi conto in un solo attimo dell’enormità della prigionia che imponiamo a noi stessi talvolta per tutta una vita? Io che, con tutte le mie comodità e le mie rassicuranti abitudini non riuscivo a dare un senso alla mia vita?
“ Ma non vuole mangiare qualcosa? ” La mia voce era già diventata un po’ più incerta e quasi lamentosa, mentre gli offrivo una patetica proiezione del mio vuoto interiore, della mia fame di certezze.
“ Sì, voglio mangiare…quando ho fame. Ora non ne ho ”. Disse, finalmente girandosi e degnandomi della sua attenzione, e regalandomi al contempo un sorriso in cui vidi rispecchiato un cielo di bimbo, un seno profumato di donna innamorata, la furibonda violenza delle onde sulla scogliera, il serpeggiare delle dune nel deserto, le brume stagnanti nella pianura e le vette solitarie dei monti.
Mi allontanai sentendomi trasfigurato. Avevo compreso in un attimo –apprendendolo da lui - che non potevo stringere nulla nelle mani, nulla di meglio e nulla di più che il momento presente; che questo racchiudeva tutto, ma proprio tutto, il senso dell’universo, e seppi che da quel momento mi sarei dedicato a viverlo pienamente.
Più tardi lo vidi sgusciare fuori dal paese, e sembrava che l’orizzonte non lo potesse contenere tutto.
LA NOTA GIUSTA
Marsia, il fauno, seduto sulla sponda del ruscello al limite del boschetto sacro, soffiava nel suo aulòs, il flauto a doppia canna innalzando al cielo note squisite, che incantavano gli uccelli del paradiso e i pavoni, i daini e le martore. Le creature del bosco a volte si fermavano a rispettosa distanza ad ascoltare, tutti catturati da quel suono che aveva un che di soprannaturale e misterioso al tempo stesso; che non si capiva bene se era emesso da un essere in carne ed ossa oppure un dio, un demone, o un abitatore di altre dimensioni. E Marsia, mezzo capro e mezzo uomo, era un po’ di tutte queste cose.
Del resto, a loro non importava, né potevano porsi il problema: sapevano o meglio sentivano solo che quelle note imponevano come una pausa al loro incessante furore di vita, una calma che avvolgeva le membra e di cui naturalmente non sapevano darsi spiegazioni ma di cui godevano per qualche attimo, deponendo in una qualche misura la natura animale per poi rimpadronirsene quando l’istinto reclamava di nuovo la sua parte.
Il satiro era molto contento di quella sorta di dono di Atena; che in realtà non era proprio un dono, giacchè la dea si era subito pentita della sua invenzione vedendosi riflessa nel laghetto con le gote gonfie, leggermente paonazza, mentre suonava il flauto. L’immagine non era certo in linea con la sua dignità e lo aveva scagliato a terra adirata, gettando persino una maledizione su chi lo avesse raccolto.
Chissà se Marsia era al corrente di questa maledizione: sta di fatto che l’amore per la musica era troppo forte e il flauto divenne suo quando lo trovò presso l’acqua.
Da allora aveva esibito, sulla scena della foresta frigia, un talento innato e sicuramente fuori dal comune per l’arte musicale. Le ninfe dei boschi e delle fonti si sedevano spesso ad ascoltarlo rapite: era come se la musica di Marsia le facesse compenetrare ancor più nella loro natura di creature selvatiche ma gentili e delicate al tempo stesso: nel loro essere fanciulle e a un tempo libere e selvagge come le creature dei boschi quali esse erano, perché il suono si librava fra terra e cielo, riflettendo la natura stessa di chi lo emetteva. Dunque in loro la natura vegetale e animale si stemperava in quella umana per poi sfumare impercettibilmente in quella divina, di cui erano forse inconsapevoli portatrici; e le note del flauto le trasportavano alternativamente dall’una all’altra secondo l’andamento della musica, su una sintonia che sempre rispondeva al loro essere e sempre risuonava vibrante in loro, con la pienezza di senso che una magica melodia sa evocare e con cui si identificavano totalmente.
Anche i villici, i pastori e gli occasionali viandanti non potevano resistere a quelle note ipnotiche, a volte struggenti, a volte impetuose e a volte melanconiche ma che sempre sopraffacevano l’animo; a frotte si sedevano presso le rive del ruscello per ascoltarlo, dimentichi degli affanni quotidiani, delle fatiche, dei soprusi dei potenti, della dura lotta con gli elementi. Era quel tocco di magia di cui sentivano il bisogno per credere che forse, oltre il loro angusto e limitato orizzonte, potesse esistere qualcosa di diverso, qualcosa di più e di meglio….che gli dèi benevoli, in fondo, avevano memoria di loro e non li avrebbero abbandonati. Era un sentimento ignoto a cui non sapevano né dare un nome né ricondurre a un concetto troppo al di fuori della loro portata, della loro semplice mente; ma era confortante e incoraggiante. Percepivano, forse confusamente, una speranza di poter avere una vita migliore in compagnia di se stessi.
Però tutti questi successi popolari, tutta questa ammirazione, tutto questo scavare negli animi e portare loro sollievo e dolcezza diedero alla testa a Marsia e a lungo andare gli furono fatali.
Un giorno infatti un bifolco che lo stava ascoltando esclamò, nell’impeto dell’entusiasmo:
“Marsia, la tua musica vale di più di quella del divino Apollo!”
Era un terreno pericoloso, e sebbene il satiro sulle prime sentisse la convinzione che avrebbe dovuto prendere la distanze da questa affermazione e contraddirla per amore e rispetto degli dèi, pure la vanità e forse anche l’intima convinzione che ciò fosse vero ebbero la meglio; e gongolò dentro di sè, continuando a suonare come se niente fosse ma innalzandosi di superbia in cuor suo.
Gli dèi però non per niente sono tali: i loro occhi e le loro orecchie sono più attente di quanto l’uomo pensi, e questa voce , non si sa se trasportata dal vento, o riferita da qualche ninfa con cui Apollo amoreggiava, oppure sussurrata tra i rami degli alberi, o semplicemente colta al volo dal dio, arrivò fino a lui, il supremo interprete della musica e del canto: quell’Apollo chiamato in causa così irrispettosamente dal bifolco che si era pronunciato sulla sua musica.
“Mmh….così stanno le cose?” Si chiese il dio. “Vediamo se questa voce trova conferma”.
“Marsia , mi si dice che la tua musica vale più della mia! E’ forse vero?” Gli si rivolse il dio quando, disceso dalle vette del Parnaso, fu davanti a lui.
“Divino Apollo, non io lo dico, ma altri”
“Ma dimmi, e non mentire: tu stesso lo pensi, non è così?”
“Non arrivo a tanto, o figlio di Zeus…ma se viene detto, potrebbe essere vero”
“Quando è così non resta che competere…e che siano dei giudici imparziali a stabilire chi dei due è superiore all’altro”
“Giudici?”
“Sì. Chi più delle figlie di Mnemosyne, versate in tutte le arti, saranno in grado di emettere tale giudizio? E il vincitore potrà disporre a suo piacimento del perdente”
A Marsia non restò che fare buon viso a cattivo gioco: le Muse facevano parte del seguito di Apollo, a chi mai avrebbero espresso il loro voto favorevole?
Si arrivò così al giorno della gara, in cui Marsia e Apollo si cimentarono nell’eseguire musiche scelte, l’uno al flauto doppio, l’altro alla lira, il suo strumento da sempre.
Marsia trascese se stesso nell’esecuzione, e toccò vertici melodici inaspettati anche per le Muse, le quali, non senza un certo imbarazzo, dopo aver ascoltato anche Apollo, emisero un verdetto di parità.
Il dio masticò amaro, ma per il suo orgoglio il boccone era troppo indigesto da mandar giù: pretese allora che ciascuno suonasse il proprio strumento alla rovescia e per di più che cantasse al contempo. La sorte della sfida ormai era decisa e Marsia seppe di essere perduto: come poteva suonare il flauto alla rovescia cosa già di per sé impossibile, ma addirittura al contempo cantare, mentre Apollo aveva buon gioco in entrambe le cose con la sua lira?
Apollo, che aveva vinto senza nemmeno lottare, depose la lira e senza una parola afferrò il fauno saldamente con una presa ferrea della sua forza sovrumana. Lo legò per le braccia al ramo di un albero al di sopra della sua testa, e preso un coltello affilato cominciò a scuoiarlo, a scorticarlo, lentamente e meticolosamente; e mentre Marsia urlava a pieni polmoni tutto il suo patimento gli ricordava che gli esseri inferiori non possono mettersi al pari degli dèi, e tanto meno pensare di essere loro superiori in qualsiasi cosa: questa era la giustizia e l’ordine del cosmo.
Intanto qualcosa di stupefacente stava avvenendo in Marsia: dopo essere collassato come morto non potendo più sostenere il dolore atroce di quella tortura, coperto di sangue com’era da capo a piedi, qualcosa era sfuggito da lui insieme all’anelito vitale. Ora però osservava il suo corpo inerte penzolare da quel ramo, come se fosse un osservatore esterno che si affacciava a una finestra da un altro mondo, un altro dove chissà dove. Sentiva commiserazione per quell’essere che era stato, e capiva che il logoro abito del passato trascinava sempre con sé brandelli di vita, quando il futuro lo strappava via prorompendo nel cuore. Gli pareva, adesso, un semplice travestimento, proprio come per quegli uomini che nelle celebrazioni dionisiache si conciano come i satiri e i sileni e poi, finita la festa, tornano al loro aspetto normale
Comprese che essere spogliati della vita fisica significa essere rivestititi di vesti nuove: il supplizio e l’immobilità forzata lo avevano costretto a vedere le cose da un punto di vista diverso e radicalmente opposto a prima, una prospettiva molto più vasta.
Comprese così che Apollo, il dio dell’armonia, non lo aveva sottoposto a quel trattamento per punirlo, ma per dargli la possibilità di esistere con una nuova consapevolezza, su un altro piano di coscienza, più in linea con l’armonia e l’ordine del cosmo di cui Apollo era guardiano, spogliandolo della sua esteriorità: la sua pelle, il suo superficiale vivere per glorificare se stesso, perché potesse vivere l’essenza di ciò che aveva dentro. Dunque non un giustiziere, crudele e spietato, ma un maestro sotto false vesti, che lo aveva aiutato nel doloroso compito di svestire la vecchia identità per abbracciarne una nuova, e aveva fatto di lui una nuova creatura suo malgrado. Per aspera ad astra, diremmo noi oggi con il noto detto latino. Il dio del canto lo aveva spogliato della sua animalità esteriore come il serpente si disfa della pelle vecchia: da essa sguscia la stessa serpe rinnovata, mentre dal rivestimento animalesco di Marsia era uscito un uomo fatto e finito. La morte e la rinascita sono un ciclo continuo, la legge del cosmo.
Poi si vide slacciarsi da solo quei legacci che lo tenevano appeso al ramo, e insieme ad essi tutti quei legami che lo avevano ossessionato nel suo stato di essere intermedio che propendeva più per la natura animale che quella umana.
Gettò uno sguardo distratto a quel poco che restava di lui, quell’ammasso di carne sanguinolente afflosciato a terra, ma stavolta non sentì nessuna compassione per quella creatura semi-animalesca in cui gli istinti pulsavano molto più fortemente della ragione, e che il doloroso tocco del divino aveva trasformato in una creatura umana capace di vedersi dal di fuori e di proiettarsi verso nuove comprensioni.
SIMON