Centro Studi Ermetici Alchemici

JUNG E LA SAGGEZZA DEL SIMBOLO

Scrive René Guénon (1886-1951) nel volume: Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi1: "Non è una semplice questione di vocabolario il fatto, assai significativo, che la psicologia attuale prenda sempre in considerazione solo il 'subconscio' e non il 'su­perconscio', il quale dovrebbe esserne logicamente il correlativo". Un rilievo che, poche pagine dopo, gli permette di aggiungere: "Del resto, il carattere generalmente ignobile e ripugnante delle interpretazioni psicanalitiche costituisce, a questo proposito, un 'marchio' che non lascia dubbi". Da ciò, la conclusione che invita a riconoscere, in tale filone di pensiero, "…una rassomiglianza piuttosto terrificante con certi 'sacramenti del diavolo'! Non è da meno – come è ovvio – Julius Evola (1898-1974), e con una più folta serie di argomentazioni, così come esposte nel testo Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo2.

Quanto sono legittime codeste valutazioni? In apparenza, po­trebbero apparire inoppugnabili, sotto il profilo 'tradizionale', ma è d'altra parte sintomatico che, di recente, sono state presentate talune tesi antipsicanalitiche di segno antitetico3. Dal che, una lapalis­siana, duplice deduzione che suona:

a) oggi la psicanalisi è sotto attacco da più parti, come si deduce anche crescente popolarità dei filosofi, sia nell'ambito delle cro­nache culturali sia nel nuovo ruolo di consiglieri dell'anima di persone e comunità;

b) nel momento attuale, codesta crescente e disseminata polemica contro la psicanalisi si volge soprattutto nei confronti della pri­miziale formulazione freudiana, ma non perché s'intendano 'salvare' i difformi assunti adleriani e junghiani. Tutt'altro. Basti ricordare che proprio Evola, a proposito di Jung, non ebbe remora alcuna ad asserire che le sue "…vedute per essere più sottili e spiritualistiche, non sono meno pericolose delle altre …" (op. citata, nota della pagina 70).

Ebbene, mi sia permesso di dissentire. In linea di preliminare, perché potrebbe dimostrarsi che, in Freud, inclinazione verso l'occulto e la misteriosofia, fu una tentazione ricorrente e soltanto la rivalità con Jung fu un freno bastante per indurlo a irrigidirsi entro una dottrina fondamentalmente pansessualista, ancorché ricono­scesse che si ergeva spesso, di contro alla libido, il livido spettro della tentazione all'autodistruzione (todestrieb): Eros e Thanatos, quale riflesso di una realtà 'autre'. Di ciò si potrà discorrere in altra occasione, ma chiunque abbia letto, senza pregiudizi, il libro L'uomo Mosè e la religione monoteista (1938) non potrà non convenire che vi è una sfaccettatura 'egiziaca' del pensiero freu­diano che ancora attende una compiuta illuminazione. In secondo luogo, ma come preludio al ragionamento principale, qui anticipo e ribadisco che l'apertura alla dimensione archetipica, indicata e illustrata da Carl Gustav Jung, fu ed è un cammino che non si esaurisce con una discesa agli inferi, poiché presuppone una rige­nerazione della persona volta ad abbracciare tanto l'infrarosso, quanto l'ultravioletto della psiche, per dirla con concetti 'imma­ginali' propriamente junghiani. Itinerario conveniente non soltanto in ambito terapeutico, ma altresì – e soprattutto – quando l'indi­viduo abbia deciso di affrontare la propria ombra e gli influssi, effettivamente 'meta-psichici', che vi si contorcono.

Una realtà di metodo e di fatto che dovrebbe essere nota a tutti … e a cominciare dagli esoteristi, quando abbiano coscienza che non sussiste trasmutazione interiore se non sostenuta da una pa­rallela e integrata volontà di acquisire una visione del mondo ca­pace di proiettarsi, con pari forza, sia nelle dimensioni della psiche sia nei regni del mondo manifesto: un compito che esige il pro­gressivo abbandono di ogni stereotipo preconcetto. In favore di quale orientamento? In favore di un sapere capace di reinterpretare il mito anche in chiave 'attualistica' (il caso Hillman insegni!) e di rivolgersi a nuovi oggetti di meditazione. O qualcuno ritiene che non sia degno della saggezza iniziatica il soffermarsi sulle impli­cazioni racchiuse nella notizia, secondo la quale un gruppo di ri­cercatori di Zurigo è riuscito, per la prima volta, a riprodurre al computer la nascita di una galassia del tutto simile alla nostra Via Lattea4? Qui, comunque, mi accingo al dissimile impegno di dimo­strare che vi è uno Jung che è necessario riconoscere come Maestro nella disciplina che trascolora dall'alchimia psichica all'alchimia spirituale, avendo per addentellati alcune, eloquenti esperienze personali, nonché un'eccezionale conoscenza della fenomenologia religiosa e correlate letterature5.

L'esplorazione di un testo

In questi giorni, sto concentrandomi nella lettura del monu­mentale Libro rosso, o "Liber novus", di Carl Gustav Jung: un gradito dono di una coppia di amici molto legata a questa rivista. Per il momento, ignoro quando riuscirò giungere ad una soddi­sfacente comprensione del volume. L'opera, folta di pagine (circa 370), è difatti per lo più criptica, in questa o quella sfaccettatura, e piuttosto scomoda da interrogare, stante il formato in folio e la robusta legatura di tela. Sussiste, tuttavia, la ragionevole speranza che, prima o poi, le benemerite Edizioni Bollati Boringhieri provvedano a pubblicarne una versione di più agevole consulta­zione, ma senza nulla togliere al contenuto scritto e alla impor­tantissima componente iconografica, pienamente compartecipe del senso delle due fasi di stesura del testo: 1913-1930 e 1957-1959; elaborazioni accurate e approfondite, ma che, tuttavia, non si conclusero.

Il "Liber novus" appare difatti, nell'insieme, come interrotto, ma soltanto sotto un profilo formale. Laddove si soppesi invece il valore illuminativo che ogni sua parte offre al ricercatore non vi è dubbio che si sia davanti a una creazione che è, ad un tempo, filosofica e poetica, psicoanalitica e gnostica, nelle accezioni più complete che questi aggettivi racchiudono e indicano. Bene, tali sono le premesse, a completamento delle quali ricordo volentieri che editor della versione italiana è stato Sonu Shamdasani, insigne docente di psicologia e psichiatria, e che sbaglierebbe di grosso chi pensasse di affrontare la sua lettura in maniera lineare, sistematica, come se Carl Gustav Jung, con il Libro rosso, avesse inteso pro­porre un manuale di autoiniziazione!

No, il percorso è labirintico, in quanto richiede, talvolta, che si sappia ritornare sui propri passi, o che si varchi una soglia che non conduce in alcun luogo, e talaltra, comprendendo, con intuizione e ragione, che ciò che appare indubitabile occulta, per contro, un segreto simbolico inverso, così come è inversa l'immagine rinviata dallo specchio. Ci si ricordi, a tale proposito, che lo stesso Jung volle inserita nell'ultima parte di quest'opera la 'bizzarra' monogra­fia diaristica rappresentata dai Septes sermones ad mortuos (1916), frutto quella lotta con l'inconscio che lo condurrà al dialogo con gli archetipi: entità non soltanto 'platoniche' nell'accezione accademica del concetto, ma neppure unicamente psichiche, come vorrebbero, per ragioni antitetiche, scolari e avversari del pensiero junghiano. Non per nulla, ambedue le pubblicazioni citate hanno a che fare con maestri della gnosi, quali Basilide e Valentino (sec. II d.C.) e, in ognuna di esse, l'autore trova il modo di sottolineare che la creatività immaginativa ingloba significati che non sono esclusivamente riconducibili alle stratificazioni subconscie. Assento e ricordo, a tale proposito, che le arti, tutte le arti, sono una forma di conoscenza.

Una ragione in più per concordare – ancora una volta! – con Carl Gustav Jung, quando sottolinea che, di là dal velo della psiche, entro cui siamo avvolti, parrebbe vivere un "…oggetto assoluto ma incompreso che opera e influisce su di noi … anche quando non si possono fare constatazioni reali" (sta in Ricordi, sogni e riflessioni, capitolo «Ultimi pensieri», Rizzoli Editore, Milano, 1978). Da quivi la primaria necessità di rendersi consapevoli che illumina­zione interiore e processo d'individuazione domandano d'essere conglobati, nel mezzo del cammino, secondo quanto enuncia Il libro rosso, laddove indica nelle immagini stellari i segnacoli che si collocano lungo i bordi fra il mondo manifesto e le dimensioni dell'immensità celeste: dunque "La via di quel che ha da venire", come suggeriscono le parole di sottotitolo dell'opera, memorie e profezia che sospingono l'intelletto umano a riconoscersi creatura e creatore di un mondo. Dal che, sotto il profilo inverso, l'imperioso dovere di mantenersi partecipi, ma non schiavi, di tutto ciò che muta e si disperde ciclicamente, in obbedienza alla proteiforme e impersonale divinità che si rinnova ciclicamente, Abraxas. Co­lui/Esso che potrebbe dire di sé:

Mio il sapore della Luna.

Mia la maschera di carta vetrata.

Mie le ferite che l'Uno m'infligge.

E l'entità Uomo, spaventoso incubo

nella mia disseminata solitudine.

Oppure, con pari verità:

Salgo

Per custodire il libro mastro del Sole e delle stelle.

Discendo

E sottraggo la pietà dal mio sguardo,

quando affronto l'opera del Drago.6

Realtà e verità che sottintendono il comandamento che evoca ed invoca la trasmutazione dell'immaginazione attiva in immagina­zione creativa. Ovverossia: il progressivo distacco dal pre-giudizio che vorrebbe antitetici concentrazione ed espansione della co­scienza, unità dell'Essere e angelologia, monoteismo e dualismo. Sorta di tappeto pluridimensionale che conviene disegnare e in­tessere, avendo per ordito la certezza che molte deità cospirino con l'Uomo, o contro l'Uomo.

La prima spirale

Pagina dopo pagina, sempre più mi convinco che il Liber novus non è opera letteraria, o di saggistica. È piuttosto un testo oracolare, da interrogarsi in alternativa all'I' Ching, forse all'alba di ogni giorno, prima che scompaiano gli ultimi ricordi sbrindellati dei sogni notturni, oppure davanti al tramonto, presentendo che le imminenti immagini oniriche condurranno inevitabilmente la psiche, laddove una sottile linea di confine separa le acque chiare e correnti dalle acque oscure e stagnanti. Certo, lo psicoterapeuta potrà trovarvi anche più di una sfaccettatura simbolica utile al suo lavoro e lo storico delle scienze psicologiche avrà più di una ra­gione per soffermarsi su tali visioni, altrove soppesate dall'autore con linguaggio scientifico, ma è quivi, proprio quivi, che l'Uomo del nostro tempo troverà quanto può servirgli per rinnovare co­scienza e inconscio, sempre che non sia intontito dagli idola della superstizione, o dalle vanità dello scientismo più spinto. Non senza pericoli, poiché si esige che 'l'iniziando' sappia identificarsi con le immagini suggerite dal Libro o autocreate, fino a instaurare un autentico dialogo con esse, ma per arrivare, infine, grazie alla ragione critica, a strapparsi dalla fascinazione che effondono sua­sivamente.

Facile a dirsi, difficile da farsi? Sì e no, quando si consideri che la puntuale registrazione di codesto iter, mediante un idoneo lin­guaggio (il suono musicale o la parola, il disegno e il colore, o una qualche combinazione di codesti elementi) è lo strumento, ado­perato dallo stesso Jung per pervenire al traguardo del personale processo adatto a 'fare anima' e altresì indicato come testimonianza esemplificativa. A più di una condizione. Vi sono enigmi, infatti, che neppure la mitologia conosce, ma che hanno una particolare connotazione per ciascuna persona. Jung, per esempio, si trovò a dover 'vivere', in un certo periodo, con un'apparizione trans-psicologica che aveva per attori il profeta Elia e l'immaginale, sua figlia, una Salomè cieca che implorava amore: "costellazione" di figure che avrebbe potuto provocare una pericolosa "fissazione" in un intelletto poco saldo, ma accettata, invece, come una tentazione da Jung, in modo che tramontasse rapidamente dal suo cielo spi­rituale, dopo essere riuscito a distillarne il segreto che vi era racchiuso.

Si vuole qualche esempio di maggiore e più estesa eloquenza simbolica? Rammenterò allora una coppia di singolari similitudini.

La prima: la psicologia del profondo può suggerire di scorgere nell'eroe Prometeo colui che costringe l'elemento caotico a pren­dere forma ed egli, sotto tale profilo, è dunque da riguardarsi, come il donatore e il dono, nella stessa misura in cui la singolarità iniziale (o fluttuazione quantistica) precede e contiene il big bang posto alle origini dell'Universo.

La seconda: in quanto, come indica il nome, pensiero preveggente, nonché, stando al mitologema che gli compete, creatore degli uomini con la creta e il fuoco, il personaggio Prometeo è figura che, sub specie interioritatis, può sostituirsi al Demiurgo degli gnostici, così da riconoscere la presenza nell''Altrove assoluto', come in tutte le dimensioni del Cosmo manifesto, di una diversa contesa fra la Luce e le Tenebre.

Diversa, si noti bene, ma non antitetica, ché una più ardita meditazione potrebbe spingersi a paragonare Prometeo alla Pistis Sophia: le due intelligenze sovrumane chiamate a conoscere le forme estreme e antitetiche della liberazione dai lacci della materia, grazie a dissimili configurazioni del destino. Accostamento di fi­gure e di vicende sovratemporali che sarà opportuno considerare meno azzardate di quanto appaia a prima vista, quando ci si rifaccia alla seguente massima del Liber qui in esame: "Le parole che oscillano fra nonsenso e senso superiore sono le più antiche e le più vere", purché, mi sia concesso di aggiungere, se ne sappia cogliere l'articolazione e concetto; per qualcuno, previa la con­quista della connessa verità junghiana, sotto il cui segno è stabilito per sempre che la tensione prometeica è per l'intelletto ciò che il complesso edipico è per i sensi. Piuttosto arduo da concepirsi e da realizzarsi, indubbiamente. Soprattutto nei momenti attuali, e per i suoi acclamati protagonisti, per i quali appare ridicolo, se non blasfemo, quest'altro assunto junghiano: "Dare vita a cose anti­chissime in un'epoca nuova significa creare".

Sia sottinteso, se non ribadito: questo scritto non ha obiettivo di tratteggiare un profilo biografico di Jung, nel cinquantenario della morte, né, tanto meno, ambisce a presentarsi come una recensione del Libro rosso. Implica, piuttosto, che si pervenga al seguente ragionamento: «dobbiamo a Jung preziose indicazioni, ma le sue esperienze interiori hanno connotazioni che appartennero a lui e soltanto a lui, pur rivestendo un valore paradigmatico». Il che è come dire che il repertorio mitologico e mitopoietico che il sapiente elvetico seppe risvegliare, o illuminare di una nuova luce, richiede d'essere esplorato da ciascuna individualità in maniera peculiare e consonante, sia con l'inconscio personale sia con l'eredità psico-spirituale della propria stirpe. Non può esservi, infatti, autentica illuminazione (o liberazione ascensionale) se non esplorando le radici del cielo e della terra, il sensibile e il sovrasensibile, il fisico e il metafisico.

La seconda spirale

Lo intuisco in modo chiaro e netto: sono tre le spirali che, nel Liber novus, conducono al centro del labirinto, ma qui e ora non tenterò di andare oltre la seconda spira. Prima di tutto, in quanto non ho ancora completato il lavoro culturale e spirituale che è richiesto dal suddetto giro; in secondo luogo, perché sarebbe in­tellettualmente disonesto indicare ad altri costellazioni sapienziali che ancora non conosco compiutamente; infine, quale terzo e più rilevante motivo, perché coltivo l'intima convinzione che il per­corso della spirale conclusiva comporti l'accesso a una creatività al di là da come usualmente intesa. Tramite un'approfondita acqui­sizione del goetheanismo? Direi di sì, stante i valori trasmutativi che vi sono rintracciabili.

Ma intanto? Intanto è d'obbligo lavorare molto seriamente e junghianamente, affiché l'irrazionale si ponga al servizio della Ragione. Se non altro, per domandarsi fino a qual punto potrà svilupparsi un'intuizione in grado di discernere la distinzione fra l'immagine di Dio, vivente nell'Homo religiosus, e la di Lui es­senza. Problema che invoca altresì il dubbio, o la possibilità, che vi sia un tempo particolare che fluisce e rifluisce entro il pleroma della divinità, per cui diventa una verità allegorica rivelata, l'e­nunciato che vorrebbe ogni mese platonico corrispondente a 2300 anni della vita terrestre. Non si travisi, tuttavia, quanto ho esposto e ciò che sto per esprimere. È ben vero, difatti, che colui che resta eterno in ogni istante è il Dio nato prima del Padre, ma è altrettanto probabile, anzi altamente verosimile, che per giungere ad accostarsi a tale mistero diventerà quanto prima indispensabile che il nostro occhio intellettivo si distacchi dal trapassato prossimo per rag­giungere quell'estremo trapassato remoto che si confonde con i diversi momenti del futuro.

Che cosa intendo dire? Intendo dire che occorrerà trarre tutte le possibili conseguenze dall'esordio dei Septem sermones ad mortuos: "I morti tornarono da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano". Drammatico e anticipatorio ricono­scimento (il testo junghiano fu elaborato tra il 1914 e il 1916) che le tre religioni monoteistiche, solite riconoscersi in quel luogo, hanno fino ad oggi conservato il duplice potere di consolare l'Uomo e di operare affinché sia salva la dignità della sua anima, di contro le tentazioni dell'Oscurità. Null'altro, o poco più. Il sapere integrale e indefettibile vi si trova difatti coltivato o nel seno di ri­strette cerchie della più rigida ortodossia, o nell'alveo delle rispet­tive frange eterodosse, se non ereticali. È dunque necessario un ritorno agli antichi Dèi? Dovremmo forse (ri)disegnare la mappa della geografia sacra, riandando ai tempi e ai templi dell'ellenismo orientale e occidentale? Una soluzione del genere sarebbe affa­scinante, ma pericolosa. Dove Essi/Coloro potrebbero di nuovo rivelarsi?

Non sussistono, almeno per il momento, risposte di valore universale e sarebbe grottesco ridestare credenze e rituali senza avere la certezza che corrispondano all'influenza spirituale alla quale vorrebbero e dovrebbero essere collegati. Per non parlare dell'eventualità, come è detto nell'Angelo della finestra d'Occidente (il noto romanzo occulto di Gustav Meyrink), che il dardo della preghiera venga afferrato dall'Altro e dai suoi servi, poiché non è riuscito a raggiungere l'orecchio di Dio. È perciò duplice l'impresa che si potrebbe affrontare. O, con stretta osservanza junghiana, volgersi alla cerca di una nuova libertà cristiana, tuttavia disco­standosi dalla maledizione lanciata da rabbì Gesù contro l'incol­pevole fico privo di frutti7, come se fosse possibile alla Parola contraddire e contrarre un'esteriorizzazione riconducibile a quei Principi formativi, che si trovano ovunque disseminati nelle di­mensioni del Cosmo. Probabilmente plasmati dall'Uno e dal Tre, forse generati di contro all'avverso disegno del Due. Oppure, con una diversa intuizione, ci si potrebbe spingere a saggiare ognuna delle antinomie intrinseche nell'angelologia di qualsivoglia mo­noteismo, avendo per guida l'iranista Henry Corbin (si veda il suo volume Il paradosso del monoteismo, Casa Editrice Marietti, Casale Monferrato, 1986).

Ardite speculazioni che consentono intrappolare l'Infinitezza nel finito e, nel contempo, permettono di liberare il Reale dai ceppi della materia. Non soltanto come atto religioso e filosofico, in sé concluso, ma bensì quale traccia ascensionale esemplificativa per ogni genere di creatività, incluse le ramificazioni artistiche e scientifiche, come è più volte sottolineato dallo stesso Jung, nel contesto del Liber novus, oltre che ripetuto in altre sue opere, come dovrebbe essere saputo e risaputo. Non per nulla, grazie al pensiero junghiano, si è acquisita la consapevolezza che sussista un rapporto di 'consanguineità' fra l'atto meditativo, o contemplativo, e l'atto creativo, in quanto, in ambedue i casi, gli occhi della mente si volgono entro un templum, ossia misurano idealmente l'orizzonte di un prescelto spazio celeste. Allegoria e concetto che, per l'appunto, rinviano alle origini astrali di qualsivoglia esperienza visionaria, in senso lato, essendo facilmente intuibile che toccò al cielo d'ispirare il primo smarrimento dell'Uomo davanti alla Natura; smarrimento non soltanto emotivo, in quanto in quell'ancestrale perdersi e ri­conoscersi nel Sole e nella Luna, nei disegni tracciati in cielo dalle costellazioni e dai pianeti 'maggiori', già erano presenti le più su­periori forme immaginative e intellettuali.

Le conclusioni, nel mentre si giunge al termine della seconda spira della sapienza labirintica junghiana? Queste, unicamente queste, poiché toccherà in futuro a una terza spirale pervenire al centro: a) tutti gli enti presenti nell'Universo sono coscienti e/o significanti; b) ogni ente o essere si giustifica entro le architetture della Natura; c) l'intera manifestazione cosmica e ogni sua parte debbono intendersi come se Luce e Tenebre vi imprimessero al­ternativamente i propri geroglifici, di attimo in attimo, di eone in eone, fino a quando l'accartocciamento di questo Universo non darà vita a una nuova cosmogonia e ad una rinnovata cosmologia.

1 R. Guènon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Milano, Edizione Adel­phi, 1982. Prima edizione originale: 1945.

2 J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo moderno, Roma, Edizioni Medi­terranee, 19713.

3 A.J. Hobson ne La fabbrica dei sogni (Milano, Frassinelli Editore, 1998) so­stiene che a fondamento dei sogni vi siano soprattutto scambi neuronali.

4 A. L. Bonfanceschi, La galassia in provetta, articolo pubblicato l'8 settembre 2011 nel sito "Galileo".

5 Si consultino, in particolare, le seguenti opere di C. G. Jung: Ricordi, sogni e riflessioni, Milano, Rizzoli Editore, 1998; Psicologia e alchimia, Torino, Bollati-Boringhieri, 2006; oltre, naturalmente i volumi da 11 a 14 delle "Opere di C.G. Jung", pubblicate da Bollati-Boringhieri, Torino, in date diverse.

6 L'autore di questi versi 'para-poetici' preferisce rimanere anonimo, almeno per il momento.

7 Si veda Matteo (18-22).

ALBERTO CESARE AMBESI